R. e P.

Ho sempre avuto difficoltà ad orientarmi, un’innata propensione a perdermi tra vicoli e viuzze. Non parliamo poi, delle strade statali e delle autostrade, in Liguria come in Calabria: ricordo ancora quando, all’uscita dal casello di Genova Voltri, finii dritta dritta dentro al porto commerciale di Prà, da cui riuscii a venir fuori solo a fatica; e perfino la SS 106 dietro casa, a Siderno, con la “doppia direzione” Taranto-Reggio, inizialmente mi mise in seria difficoltà. Non va meglio neppure con i supporti tecnologici, verso i quali ho un’irrimediabile idiosincrasia: quando qualcuno si offre di “inviarmi la sua posizione” sul cellulare, declino cortesemente, oppure accetto per poi non servirmene affatto. Nel corso della vita mi hanno affibbiato una pletora di soprannomi: “Mappy” e “tonton” sono forse i più “pittoreschi”; entrambi  chiaramente antifrastici.

E proprio a me, quest’anno, sono toccate in sorte tre “cattedre” geografia.

Contraddittorio, così potrei definire il mio rapporto con tale disciplina: un gigantesco ossimoro. Studiare questa materia implica, è innegabile, un apprendimento noioso e frustrante, la memorizzazione di una sequela di dati, di cui, da ragazzini, si fatica a cogliere il “senso”. Siamo sinceri: chi di noi, da studente, non ha inveito, almeno una volta, contro quella selva di cifre, e percentuali? Chi mai ha nutrito simpatia per densità demografiche, superfici e numero di addetti divisi per settore, da ricordare stato per stato, regione per regione? Per non parlare dei lunghi e spesso ripetitivi elenchi di prodotti del settore primario, contro cui, nei momenti di vuoto, potevi sperare di salvarti solo facendo ricorso a due onnipresenti certezze: ”tabacco e barbabietola da zucchero”.

Eppure l’idea di insegnare geografia oggi non mi dispiace; anzi, la vedo come una grande opportunità, per me e per i miei alunni. Ma c’è voluto del tempo.

L’apprendimento è un “viaggio emozionale” e la geografia ne è in un certo senso l’emblema, anche se spesso la serie di dati e nozioni rischia di soffocarne il respiro; inoltre essa, interdisciplinare per vocazione, si sostanzia di un dialogo fecondo con le più disparate discipline, abitua le giovani menti a una prospettiva comparatistica, le apre a una visione globale pur preservando le peculiarità locali. Infine, “profuma” di vita vissuta: di viaggi intrapresi e persone conosciute; di cibi assaporati e paesaggi contemplati; fonde in sé misticismo e ragione, cuore e passione.

Ho imparato ad apprezzarla “da grande” e invece mi piacerebbe riuscire a farla amare anche ai più piccoli, senza sacrificare alle “ragioni del cuore” uno studio serio e razionale: al di là della facile ironia, i dati hanno la loro importanza e ci forniscono informazioni preziose su un territorio, soprattutto se messi a confronto con quelli di altri luoghi o di altre epoche storiche. Per questo bisogna imparare a studiarli; a considerarli e a leggerli nel giusto modo. Ma partire dai dati non è forse la strada migliore da intraprendere  per iniziare coi propri studenti questo viaggio.

Come fare, dunque?

Non ho ricette o formule che “aprano mondi”, come direbbe Montale. A scuola si procede per tentativi ed errori, come nella vita. Tutto sta nel riconnettere, appunto, la geografia alla vita, all’esperienza personale di ciascun allievo, tentando di far breccia nel suo cuore, di “conquistarlo”. Già, facile a dirsi…Ma nella pratica? Come riagganciare, in una calda mattinata di settembre, venti anime che ti sbadigliano davanti e, sconsolate, guardano fuori, con le gambe della mente intente a correre sui prati, a dimenarsi tra le onde? Come riportarle al grigio “hic et nunc” senza soffocarne il respiro? Forse, almeno per quanto mi riguarda, cominciando ad ammettere che la prima a “scoppiare di noia”, come direbbe Leopardi, sono io; che quella sorda irritazione, quel rancoroso rammarico per la libertà perduta sono anche i miei. Anche io, come loro, ho mal digerito l’inesorabile passaggio dal tempo lento dell’estate al ritmo serrato dell’autunno, con le prime piogge torrenziali nell’afa che pure, a tratti riaffiora inesorabile. A Genova, seduta alla cattedra, accaldata, oppressa dall’umidità e dalla sonnolenza di quegli sguardi smorti e tristi ( se va bene), non mi diverto; e se non mi diverto rischio di trasformarmi in uno scialbo ripetitore di aride nozioni, finendo per irritare me stessa prima ancora che il mio giovane “pubblico”. E allora, per “scacciare la noia” e riaccendere gli entusiasmi…

(fine prima parte)

Livia Archinà