R. e P.

Lungo la strada riaffiorano alla mente immagini di un tempo perduto e le voci si susseguono a sgranare rosari di ricordi: le capriole nei campi di sulla in primavera, l’epica processione a piedi da Siderno fino alla casa dei nonni, che la diga sul fiume Lordo, inaugurata nel 2003 e ormai prosciugata da anni, ha riportato alla luce, assieme alla vigna e al “troppeto”, il frantoio, che riposa in fondo al vallone. Ritorna prepotente la scena di un antico raduno, appuntamento fisso che laggiù riuniva la famiglia ogni domenica, con la pioggia e con il sole, in barba alle intemperie e alle fiumare in piena, audacemente guadate sulle spalle dei grandi. Così raccontano “i vecchi”, catapultati d’improvviso in un’infanzia perduta. Saranno loro, guide improvvisate quanto preziose, i ciceroni in questo viaggio fuori stagione nella Locride.

Ma oggi la meta è un’altra; per raggiungerla non si deve scendere a valle, bensì salire fin quasi in cima alla “timpa”, la collina. Il fuoristrada si inerpica sul pendio e il motore ulula un po’, ma si arriva pur sempre a destinazione. Qui lo spettacolo ripaga ampiamente della sveglia all’alba e degli scossoni lungo il tragitto: proiettato in avanti, oltre l’onda argentea degli ulivi e il glauco tremolare del mar Jonio, lo sguardo si perde verso un’orizzonte sconfinato. Della Calabria amo soprattutto la pianeggiante vastità degli spazi, così estranea alla Liguria, al suo capoluogo inghirlandato di colline, che si arrampica ai monti con gli artigli, terra avara che un tenace lavoro di terrazzamenti millenari ha riconquistato a fatica. Invece, dall’alto di questa “collina del vento”, sgombra di muretti a secco, la vista spazia senza ostacoli lungo i declivi: al di là di essi si spalanca l’infinito, il cuore si allarga, riaffiorano, improvvisi e conturbanti, i ricordi. Proprio qui i vecchi venivano a pascolare le capre da ragazzi, trascorrendo il meriggio all’ombra degli ulivi secolari.

-La terra è buona, “è “ghiocana”- osservano fieri e commossi. Bianca e argillosa, porosa e facile da lavorare, non si crepa facilmente, è soffice e nutre la pianta; le radici degli ulivi possono affondarvi per metri, abbarbicandosi al sottosuolo in lunghezza e in larghezza, attingendo così a tutto il nutrimento necessario ad una crescita rigogliosa. Dalla sommità di questo pendio, di fronte a una vastità immensa, tutto sembra possibile, anche le prospettive si allargano e i progetti rampollano:
-Si potrebbero piantare nuovi alberi, tentare degli innesti a partire dalle “ghiastre”… –

Proprio loro, i “polloni” cresciuti attorno ai tronchi degli ulivi che l’ultimo incendio, purtroppo, non ha risparmiato, divengono testimoni tenaci di una promessa: simboli di una vita nuova che rampolla dalla morte, essi ci ricordano che la fine è solo un inizio, che il buio può farsi luce e il baratro trasformarsi in ascesa. A ridosso del ponte di Ognissanti, quando il dialogo coi morti si infittisce e si fa più intenso il silenzio nel tentativo di decifrarne le voci, gli ulivi secolari ci riportano alla sapienza antica dei nostri avi: esempio vivente di una fede coraggiosa e paziente, richiamano alla memoria valori importanti e ci esortano a farli rivivere. E’ la terra stessa a parlare: qui affondano non solo le loro, ma anche le nostre radici, si abbarbicano le tradizioni familiari, si consumano i riti che ancora tengono unite le famiglie. Ne ho viste tante, in questi giorni, radunarsi per celebrare un evento che annualmente si ripete: è “la poesia dell’oro verde”, la festosa fatica che lega tre diverse generazioni all’ombra dei tronchi di ulivo, intorno alle reti che, premurose, li circondano. Ciascun anello è fondamentale: se ne viene a mancare uno la catena si spezza, si rompe l’incantesimo. Tutti sono indispensabili alla buona riuscita dell’opera: i vecchi, menestrelli della memoria e latori di una sapienza secolare; i giovani, con braccia vigorose per lavorare e nuove conoscenze per innovare le tradizioni; i più piccoli, le cui manine sono perfette per impugnare il rastrello e raccogliere le olive sfuggite alla potenza degli abbacchiatori. Nelle loro menti fervide e vivaci si imprimerà, anno dopo anno, una ridda di immagini indelebili, danzanti intorno a un rito comprensibile solo a chi ne vive in prima persona la gioiosa fatica. Le parole, da sole, non bastano a trasmettere un insegnamento efficace: per apprendere bisogna vivere un’esperienza, mettersi in gioco, “sporcarsi le mani”.
Il compenso per la buona opera lo avremo presto: l’oro verde sul pane caldo lo assaggeremo anche quest’anno e sarà una festa per tutti; per molti è già iniziata. Il suo balsamo profumato ci accompagnerà durante l’anno, attraversando con noi le stagioni, pronto a esaltare ogni piatto con il suo intenso sapore. Ma i nuovi alberi che progettiamo di piantare su questa timpa li potranno ammirare, nella loro maestosità secolare, solo le generazioni future, proprio come noi adesso stiamo apprezzando il lavoro di chi ci ha preceduti. L’operosa fatica, il pensiero di oggi, sono rivolti, certamente, ai posteri, ma soprattutto a coloro che ci hanno preceduti: spiriti senza corpo e senza mani, ci chiedono, in questi giorni più che mai, di tradurre in azione il loro pensiero, di rinnovarne la memoria, forse con qualcosa di più di un semplice fiore, di una preghiera di suffragio, di una spolverata alla tomba. Le loro braccia siamo noi: braccia per tramandare consegne, per rinnovare tradizioni, per incarnare i valori di pazienza, perseveranza e solidarietà che ci hanno saputo trasmettere con tanto amore.

Livia Archinà