Il Tar del Lazio (Sezione Prima), Presidente Ivo Correale, estensore Roberta Ravasio, definitivamente pronunciandosi, ha respinto il ricorso presentato dagli ex amministratori e consiglieri di maggioranza del Comune di Siderno (Sindaco l’ex parlamentare Pietro Fuda) . I legali dell’Ente chiedevano l’annullamento dello scioglimento dell’Ente da cui è scaturito l’invio di una Commissione Straordinaria previa l’adozione di idonea misura cautelare. I legali del Comune hanno impugnato gli atti deducendo l’illegittimità per violazione dell’art. 143 del D. Lgs n.267/2000, violazione del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa ed eccesso di potere per difetto di istruttoria , travisamento dei fatti, carenza di motivazione, illogicità e irrazionalità, abnormità, allegando che gli elementi posti a base degli atti impugnati non avrebbero valenza sintomatica della ingerenza della criminalità organizzata nella vita dell’Ente.

DIRITTO
L’art. 143, comma 1 e 2, del D. L.vo n. 267/00 si legge come segue: “1. Fuori dai casi previsti dall’articolo 141, i consigli comunali e provinciali sono sciolti quando, anche a seguito di accertamenti effettuati a norma dell’articolo 59, comma 7, emergono concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso o similare degli amministratori di cui all’articolo 77, comma 2, ovvero su forme di condizionamento degli stessi, tali da determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere il buon andamento o l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati, ovvero che risultino tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica.
Al fine di verificare la sussistenza degli elementi di cui al comma 1 anche con riferimento al segretario comunale o provinciale, al direttore generale, ai dirigenti ed ai dipendenti dell’ente locale, il prefetto competente per territorio dispone ogni opportuno accertamento, di norma promuovendo l’accesso presso l’ente interessato. In tal caso, il prefetto nomina una commissione d’indagine, composta da tre funzionari della pubblica amministrazione, attraverso la quale esercita i poteri di accesso e di accertamento di cui è titolare per delega del Ministro dell’interno ai sensi dell’articolo 2, comma 2-quater, del decreto-legge 29 ottobre 1991, n. 345, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 1991, n. 410. Entro tre mesi dalla data di accesso, rinnovabili una volta per un ulteriore periodo massimo di tre mesi, la commissione termina gli accertamenti e rassegna al prefetto le proprie conclusioni.”
Relativamente alla interpretazione di tale norma la giurisprudenza ha avuto modo di enunciare una serie di principi, dei quali è opportuno dare conto prima di procedere alla disamina del ricorso.

  1. lo scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose non ha natura di provvedimento di tipo “sanzionatorio” ma preventivo, per la cui legittimazione è sufficiente la presenza di elementi “indizianti”, che consentano d’individuare la sussistenza di un rapporto inquinante tra l’organizzazione mafiosa e gli amministratori dell’ente considerato “infiltrato”;
    b) il quadro fattuale posto a sostegno del provvedimento di scioglimento ex art. 143 cit. deve essere valutato non atomisticamente ma nella sua complessiva valenza dimostrativa, dovendosi tradurre in un prudente apprezzamento in grado di lumeggiare, con adeguato grado di certezza, le situazioni di condizionamento e di ingerenza nella gestione dell’ente che la norma intende prevenire;
    c) stante l’ampia sfera di discrezionalità di cui l’Amministrazione dispone in sede di
    valutazione dei fenomeni connessi all’ordine pubblico, ed in particolare alla minaccia rappresentata dal radicamento sul territorio delle organizzazioni mafiose”, il controllo sulla legittimità dei provvedimenti adottati si caratterizza come “estrinseco”, nei limiti del vizio di eccesso di potere quanto all’adeguatezza dell’istruttoria, alla ragionevolezza del momento valutativo, nonché alla congruità e proporzionalità rispetto al fine perseguito;
    d) assumono rilievo, ai fini di che trattasi, situazioni non traducibili in episodici addebiti personali ma tali da rendere – nel loro insieme – plausibile, nella concreta realtà contingente e in base ai dati dell’esperienza, l’ipotesi di una soggezione degli amministratori locali alla criminalità organizzata (tra cui, in misura non esaustiva: vincoli di parentela o affinità, rapporti di amicizia o di affari, frequentazioni) e ciò pur quando il valore indiziario degli elementi raccolti non sia sufficiente per l’avvio dell’azione penale o per l’adozione di misure individuali di prevenzione (Cons. di Stato, Sez. III, 2 luglio 2014, n. 3340).
    Tali principi sono stati sviluppati in più di una occasione anche da questa Sezione (tra le ultime: TAR Lazio, Sez. I, 24/09/2018, n. 9544, 3.4.18, n. 3675 e 22.1.18, n. 816), che ha precisato, al riguardo, come l’art. 143 del d.lgs. n. 267/2000, al comma 1 (nel testo novellato dall’art. 2, comma 30, della legge 94/2009), richiede che la situazione di condizionamento dell’ente locale da parte
    della criminalità sia resa evidente da elementi “concreti, univoci e rilevanti”, che assumano valenza tale da determinare “un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere il buon andamento o l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali”.
    Gli elementi sintomatici del condizionamento criminale devono, quindi, caratterizzarsi per “concretezza”, in quanto assistiti da un obiettivo e documentato accertamento nella loro realtà storica; per “univocità”, intesa quale loro chiara direzione agli scopi che la misura di rigore è intesa a prevenire; per “rilevanza”, che si caratterizza per l’idoneità all’effetto di compromettere il regolare svolgimento delle funzioni dell’ente locale (v. anche: Cons. Stato, Sez. III, 15.3.16, n. 1038).
    Ai fini di disporre lo scioglimento di un comune per “condizionamento mafioso” risulta quindi pregiudiziale l’individuazione di aree della azione amministrativa rispetto alle quali si possa affermare che vi è compromissione del buon andamento, della imparzialità e del regolare funzionamento dei servizi, ovvero che si possa affermare la sussistenza di un grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica: tale individuazione risulta pregiudiziale in quanto, ai sensi dell’art. 143, comma 1, del D. L.vo 267/00, solo in presenza di simile compromissione o pregiudizio per l’ente gli eventuali collegamenti degli amministratori con la criminalità organizzata di tipo “mafioso” assumono rilevanza, giustificando lo scioglimento del consiglio comunale: come già precisato, la “ratio” della norma non è punitiva, del comportamento degli amministratori, ma è
    preventiva, essendo funzionale ad evitare che la criminalità organizzata di stampo “mafioso” possa trarre giovamento dalla esistenza e dalla vita degli enti comunali, asservendo gli stessi ai loro scopi.
    3. Una volta individuate le aree di compromissione della attività e degli interessi dell’ente, deve poi essere stabilito che tale compromissione è conseguenza ed effetto del collegamento che gli amministratori, o altri dipendenti del comune, abbiano con la criminalità organizzata in questione. La giurisprudenza ha più volte affermato – a tale proposito – che lo scioglimento ex art. 143 D. L.vo 267/00 è legittimo sia qualora sia riscontrato il coinvolgimento diretto degli organi di vertice
    politico-amministrativo, sia anche, più semplicemente, per l’inadeguatezza dello stesso vertice politico-amministrativo a svolgere i propri compiti di vigilanza e di verifica nei confronti della burocrazia e dei gestori di pubblici servizi del Comune, che impongono l’esigenza di intervenire per apprestare tutte le misure e le risorse necessarie per una effettiva e sostanziale cura e difesa dell’interesse pubblico, leso dalla compromissione derivante da ingerenze estranee riconducibili all’influenza ed all’ascendente esercitati da gruppi di criminalità organizzata (in tal senso: T.A.R.
    Lazio, sez. I, 3.4.2018, n. 3675; TAR Lazio, Sez. I, 28.8.15, n. 10899 e Cons. Stato,
    Sez. III, 6.3.12 n. 1266.). La giurisprudenza ha affermato, inoltre, che “l’esatta distinzione tra attività di gestione ed attività di indirizzo e di controllo politico amministrativo non esclude che il non corretto funzionamento degli apparati dell’amministrazione sia addebitabile all’organo politico quando non risultano le attività di indirizzo e di controllo dirette a contrastare tale cattivo funzionamento” (Cons. Stato, Sez. III, n. 4578/17 cit.).

In particolare, la previsione di cui al comma 2 dell’art. 143 D. L.vo 267/00, secondo cui “Al fine di verificare la sussistenza degli elementi di cui al comma 1 anche con riferimento al segretario comunale o provinciale, al direttore generale, ai dirigenti ed ai dipendenti dell’ente locale, il prefetto competente per territorio dispone ogni opportuno accertamento, di norma promuovendo l’accesso presso l’ente interessato”, sottende che il condizionamento degli amministratori, indicati al comma 1, ad opera della criminalità organizzata, ovvero un collegamento diretto o indiretto di essi alle relative consorterie, può legittimamente essere presunto ove tali collegamenti o condizionamenti siano acclarati in capo ai dipendenti o ai dirigenti dell’ente locale; di conseguenza, “una volta constatato l’asservimento dell’ente agli interessi della criminalità organizzata, gli amministratori non possono invocare la loro ignoranza relativamente al collegamento alla criminalità organizzata di dipendenti o dirigenti; sicché, ad evitare la decisione di sciogliere l’ente – pur sempre possibile ai sensi dell’art. 143, comma 5, T.U.E.L. – gli amministratori hanno l’onere di dimostrare di aver agito non solo per riportare ordine nella amministrazione dell’ente, ma più specificamente per individuare e contrastare le forme e le fonti del condizionamento mafioso, e del conseguente pregiudizio per
l’ente.” (TAR Lazio-Roma, Sez. I, 5.02.19 n. 1433).

Infine va ricordato che, ancorquì per consolidato orientamento (Cons. Stato, Sez. III, 18.10.18, n. 5970), lo scioglimento del consiglio comunale ai sensi dell’art. 143 T.U.E.L. non si giustifica, necessariamente, solo a fronte del riscontro di una molteplicità di aree di compromissione e, correlativamente, di canali di infiltrazione e condizionamento della criminalità organizzata di stampo “mafioso” nella vita dell’ente, potendo essere sufficiente a tale scopo, a seconda dei casi, anche l’individuazione di alcune situazioni, o anche di una sola, in cui si evidenzia l’asservimento dell’ente a vantaggio di simili sodalizi.
8. Tanto premesso e ricordato in punto di diritto, il Collegio passa ora ad esaminare gli atti impugnati al fine di verificare, prima di tutto, se essi si fondino sul riscontro della effettiva compromissione di interessi del Comune di Siderno e di elementi di significato univoco, che consentano di collegare tale compromissione a fenomeni di condizionamento mafioso.
9. Il Decreto del Presidente della Repubblica del 9 agosto 2018, in realtà si fonda
su una motivazione estremamente sintetica, rinviando alla allegata relazione del Ministro dell’Interno nonché alla deliberazione del Consiglio dei Ministri dell’8 agosto 2018.
10. La relazione del Ministro dell’Interno, pur nella sua schematicità, evidenzia situazioni che hanno portato, in più occasioni, all’affidamento di lavori, di servizi o di concessioni demaniali ad imprese già attinte da interdittive antimafia, ovvero legate da stretti legami con esponenti della potente cosca locale della “‘ndrangheta”, precisando altresì che tali affidamenti sono avvenuti spesso in via diretta, previo artificioso frazionamento del valore degli appalti, in assenza o tardiva adozione delle determine a contrarre, ma soprattutto con omissione degli accertamenti antimafia sulle ditte affidatarie; la relazione del Ministro evidenzia inoltre, una diffusa mala gestio, caratterizzata da inefficienze nella attività di riscossione delle entrate tributarie, con conseguente incapacità dell’Ente a far fronte alle spese correnti. E tutto ciò in un contesto caratterizzato dalla sussistenza di una fitta rete di rapporti di parentela, affinità e frequentazione tra diversi membri dell’Amministrazione e dell’apparato burocratico e persone controindicate o esponenti della “‘ndrangheta”; dalla avvenuta dimissione di alcuni consiglieri comunali, preceduta da atti intimidatori posti in essere a loro danno; dal massiccio sostegno alla elezione di uno dei consiglieri comunali, da parte della locale “‘ndrina”, confermata dall’elevato numero di preferenze ricevute dall’amministratore in questione. Le situazioni e le persone cui ha fatto riferimento il Ministro nella propria relazione sono poi specificate nella Relazione della Commissione prefettizia, le cui conclusioni sono radicalmente contestate dai ricorrenti, che si accreditano, al contrario, il merito di aver intrapreso con determinazione la lotta alla criminalità organizzata: in quest’ottica essi evidenziano di aver proceduto, poco dopo la loro elezione, alla nomina del Responsabile anticorruzione, alla stipula di un Protocollo di Intesa per la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, ad aver assicurato il rispetto della normativa antimafia, la informatizzazione degli uffici comunali ed il risanamento dei conti, portando il saldo di cassa ad oltre 2 milioni di euro, rispetto a circa 280.000,00 presenti alla loro elezione.
A questo punto il Collegio ritiene opportuno principiare, per motivi di priorità logica e pratica, dall’esame della relazione della Commissione prefettizia del 20 aprile 2018, acquisita in copia integrale al fascicolo del giudizio a seguito della istruttoria disposta dal Collegio, al fine di verificare quali, tra le situazioni che la Commissione prefettizia ha indicato come fonte di vantaggio per la criminalità . Nella relazione si parla di appalti affidati direttamente senza previo esperimento di procedura a evidenza pubblica con richiesta certificazione antimafia, gestione del centro polifunzionale, affidamento lavori palazzetto dello sport del 2011, convenzione con ditta per gestione acquedetto, ampliamento e gestione parco giochi con fornitura arredi, affidamento diretto servizio illuminazione pubblica,affidamenti servizi gestione spiagge, affidamento diretto  lavori di manutenzione impianti riscaldamento scuole,stadio comunale,sede comunale, pulizia strade,affidamento gestione canile comunale,rinnovo concessioni demaniali relative all’uso di spiagge,chioschi o altre attività insistenti su suolo pubblico oppure concessioni rilasciate a favore di alcune società vicine a famiglie mafiose,gestione beni confiscati, servizio illuminazione votiva, tardività approvazione piano spiaggia,piscina comunale con annessa palestra, rapporti di parentela o di contatto con esponenti della locale criminalità organizzata  . Inoltre l’Amministrazione Fuda non si è mostrata del tutto ligia alla osservanza dellao normativa antimafia, poiché – come si è visto – in varie occasioni ha omesso di chiedere la certificazione antimafia adducendo il limitato importo degli affidamenti,trascurando la previsione dell’art. 100 del D. L.vo 159/2011. Anche il costante ricorso ad affidamenti diretti, per quanto formalmente  legittimo a fronte della esiguità degli importi contrattualizzati, consente di condividere le conclusioni alla base del provvedimento di scioglimento, configurando una logica di asservimento agli interessi della criminalità organizzata che costituisce un abuso dell’art. 36 del Codice degli Appalti Pubblici, giacché sottrae costantemente gli affidamenti ad una competizione che normalmente determina l’abbassamento dei prezzi; inoltre è evidente che gli affidamenti diretti consentono di scegliere il beneficiario del contratto. Appropriatamente, infine, la Commissione prefettizia ha rilevato come, a prescindere dall’art. 36 del Codice dei Contratti Pubblici, l’Amministrazione non si è posta neppure il problema di applicare il Regolamento interno sui contratti pubblici, che non risulta essere stato abrogato o modificato con l’entrata in vigore del D. L.vo 50/2016, e che talora impone comunque l’esperimento di una selezione competitiva; ciò che non è avvenuto in molti dei casi di cui si è dato conto. Nella stessa direzione si può leggere la avvenuta implementazione, nel 2016, della Unità di Progetto intersettoriale “Gare e Contratti”, per lo svolgimento accentrato dei procedimenti per l’affidamento di contratti sotto la soglia di 40.000,00 euro, Unità che non risulta aver mai espletato alcuna gara e la cui creazione evidenzia, perciò, contraddittorietà nell’operato della Amministrazione, ma anche la consapevolezza della opportunità di affidare con procedura ad evidenza pubblica i contratti sotto soglia. Sul punto nulla di significativo hanno rilevato i ricorrenti, che hanno minimizzato la circostanza sostenendo che comunque gli affidamenti “sotto soglia” sarebbero stati sempre formalmente corretti (par. 1.5.1. del ricorso). La situazione, invece, è tutt’altro che insignificante, potendo ben essere interpretata, alternativamente, o come segnale che l’Amministrazione non era in grado di controllare l’operato dei dipendenti, ovvero con la volontà di creare una apparenza di legalità, che doveva far passare inosservati gli affidamenti “sotto soglia” disposti a favore di certe imprese. In conclusione, il fatto che varie delle circostanze segnalate nella relazione della Commissione non abbiano un significato univoco e non si spieghino, necessariamente, con fenomeni di condizionamento di tipo mafioso, non inficia la legittimità dell’impugnato decreto di scioglimento del Comune di Siderno, che si fonda comunque su dati oggettivi, i quali a loro volta, nell’ambito di una valutazione globale e unitaria, illuminano di significato anche le altre situazioni di cui sopra si è dato conto, che apparentemente, se considerate in modo atomistico, potrebbero trovare giustificazione anche nella casualità o nella semplice inefficienza amministrativa nella gestione della attività dell’Ente. Il Collegio ritiene, pertanto, che le Amministrazioni resistenti abbiano fatto buon governo delle norme e dei principi giurisprudenziali richiamati nella prima parte della motivazione in diritto, ragione per cui il ricorso va respinto. La complessità e delicatezza delle questioni trattate giustifica, tuttavia, la compensazione delle spese del giudizio.

Antonio Tassone- ecodellalocride.it