Ergastolo. Eccola la sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Milano a carico di Rocco Schirripa 64 anni, originario di Gioiosa Jonica (Rc), ma residente da decenni nel Torinese, a Torrazza Piemonte, accusato dell’omicidio del Procuratore capo di Torino Bruno Caccia, ucciso da un commando della ‘ndrangheta calabrese il 26 giugno 1983 in via Sommacampagna a Torino, sotto casa.
SEI ORE DI CAMERA DI CONSIGLIO Dopo sei ore di camera di consiglio la Corte presieduta da Ilio Pacini Mannucci ha decretato la condanna dell’affiliato alla ‘ndrangheta calabrese al termine di un lungo iter giudiziario iniziato a luglio 2016 e terminato oggi. In mezzo, un processo «naufragato» per un vizio irreparabile di forma. La procura di Milano – pm Ilda Boccassini e Marcello Tatangelo – aveva iscritto Schirripa nel registro degli indagati ex novo. Avrebbe dovuto invece chiedere la riapertura delle indagini del 1996 che lo videro coinvolto (e poi archiviato) sulla scorta delle dichiarazioni di Vincenzo Pavia, ex collaboratore di giustizia.
PROCESSO/BIS Il processo/bis è ricominciato il 10 febbraio del 2017. Con la stessa accusa: omicidio. E con le stesse prove del primo procedimento andato in fumo e concluso con una sentenza di «non luogo a procedura per vizio procedurale». Ma stavolta, contrariamente alla prima puntata giudiziaria, Schirripa non è stato indicato come killer materiale di Caccia. «Ha fatto parte del commando di fuoco – ha spiegato il magistrato Tatangelo – ma non sappiamo con quale ruolo preciso. In ogni caso, quella sera del 26 giugno 1983, lui era lì. Lui c’era». L’impianto accusatorio costruito su intercettazioni telefoniche captate dalla squadra Mobile incollando un virus informatico negli smartphone di Domenico Belfiore e Placido Barresi, ha retto (il pm aveva chiesto l’ergastolo) ed è arrivata una condanna pesantissima che apre scenari mutevoli su un delitto di 34 anni fa. Reggerà Schirripa all’idea di trascorrere il resto della sua vita dietro le sbarre? Si vedrà. Schirripa ieri ha reso dichiarazioni spontanee prima della lettura della sentenza. Intanto è questa la seconda condanna storica per l’omicidio di un magistrato «inavvicinabile e incorruttibile» che la ‘ndrangheta aveva deciso di eliminare (ma certamente non da sola) per continuare a prosperare nel ricco Nord Ovest. Caccia aveva intuito il «core business» delle famiglie calabresi al Nord: il riciclaggio. E aveva acceso fari a giorno sulle lavatrici della ‘ndrine. Il suo lavoro è stato interrotto, il suo insegnamento ha continuato a camminare sulle gambe di altri magistrati, facendo scuola in tutta Italia. Anche a Torino e in Piemonte. Schirripa ieri ha reso dichiarazioni spontanee prima della lettura della sentenza. Intanto è questa la seconda condanna storica per l’omicidio di un magistrato «inavvicinabile e incorruttibile» che la ‘ndrangheta aveva deciso di eliminare (ma certamente non da sola) per continuare a prosperare nel ricco Nord Ovest. Caccia aveva intuito il «core business» delle famiglie calabresi al Nord: il riciclaggio. E aveva acceso fari a giorno sulle lavatrici della ‘ndrine. Il suo lavoro è stato interrotto, il suo insegnamento ha continuato a camminare sulle gambe di altri magistrati, facendo scuola in tutta Italia. Anche a Torino e in Piemonte. Schirripa ieri ha reso dichiarazioni spontanee prima della lettura della sentenza. Intanto è questa la seconda condanna storica per l’omicidio di un magistrato «inavvicinabile e incorruttibile» che la ‘ndrangheta aveva deciso di eliminare (ma certamente non da sola) per continuare a prosperare nel ricco Nord Ovest. Caccia aveva intuito il «core business» delle famiglie calabresi al Nord: il riciclaggio. E aveva acceso fari a giorno sulle lavatrici della ‘ndrine. Il suo lavoro è stato interrotto, il suo insegnamento ha continuato a camminare sulle gambe di altri magistrati, facendo scuola in tutta Italia. Anche a Torino e in Piemonte. Nel 1992 la Cassazione aveva condannato in via definitiva Domenico Belfiore, boss assoluto dei «Gioiosani». A giugno 2015 con un differimento pena per gravi motivi di salute ha ottenuto i domiciliari a Chivasso in via Ivrea. E’ ancora vivo e ha taciuto in aula sul delitto: «Sono stato condannato da innocente» ha detto. Ma ad incastrarlo ci aveva pensato il boss dei catanesi Ciccio Miano che lo aveva registrato in carcere: «Per Caccia dovete ringraziare me» gli aveva detto Belfiore. Restano ancora nell’ombra almeno altri 4 o 5 sicari entrati in azione quella notte che ha cambiato la storia della città e dell’Italia. Ma le indagini continuano e sono serrate. Al momento un altro uomo è iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio. Si tratta di Francesco «Franco» D’Onofrio, originario di Vibo Valentia, ma residente a Nichelino, centro di 50 mila abitanti alle porte di Torino, ritenuto uno dei reggenti della ‘ndrangheta calabrese in città prima che scattassero le manette per lui ed altre 150 persone nel 2011 con la maxi operazione Minotauro. D’Onofrio è stato chiamato in causa da Domenico Agresta, 30 anni, baby pentito della ‘ndrangheta calabrese, rampollo delle famiglie di Platì dislocate a Volpiano. Agresta, che sta parlando da mesi con la Dda di Torino, ha raccontato: «Mio padre (Saverio Agresta ndr) mi ha detto che a farsi il procuratore sono stati Schirripa e D’Onofrio. Quelli sparano che manco li cani». Da qui l’iscrizione di D’Onofrio nel registro degli indagati. Finora senza seguito.
LA PROVVISIONALE Oltre a condannare Rocco Schirripa all’ergastolo, la Corte d’Assise di Milano ha disposto una provvisionale da 300mila euro per i tre figli del magistrato ucciso e di 50mila euro per altri parenti che si erano costituiti parti civili. I risarcimenti complessivi verranno liquidati in un separato giudizio civile. Inoltre la corte, ha stabilito la pubblicazione della sentenza a spese dell’imputato sul sito del Ministero della Giustizia e la sua affissione nei Comuni di Milano, Torino e Torrazza Piemonte, dove il panettiere risiede da anni.
I LEGALI DI SCHIRRIPA I legali di Schirripa, Mauro Anetrini e Basilio Foti, dicono: «E’ solo il primo tempo di una partita molto più lunga che intendiamo giocare sino all’ultimo grado di giudizio. Presenteremo ovviamente appello e siamo ansiosi di leggere le motivazioni di una condanna che non condividiamo».
fonte: la stampa