Un disarmo. Lento e costante. Attraverso cui è stata smantellata la rete di assistenza sanitaria di prossimità in Calabria. Una rete costituita da decine di ospedali, molti dei quali oggetto a più riprese di lavori di ammodernamento e forniti, nel corso degli anni, di strumentari diagnostici moderni.

Strumentari poi rimasti avvolti nel cellophane sotto strati di polvere. Ogni comunità aveva il proprio nosocomio di riferimento, poi sono arrivati il commissariamento e il Piano di rientro e nel linguaggio comune hanno fatto ingresso tre verbi: chiudere, ridimensionare e riconvertire. La costante coniugazione istituzionale di questi tre verbi è la cagione del disastro attuale.

Un disastro che ha spinto la giunta regionale a richiedere l’installazione di ospedali da campo come rapida soluzione volta ad offrire ricovero e posti letto ai pazienti affetti dal covid. Pazienti altrimenti costretti a rimanere nelle corsie dei pronto soccorso oppure sulle ambulanze.

I nosocomi rimasti di fatto inattivi, destinati ad ospitare uffici, oppure diventati sede di poliambulatori sono decine e garantirebbero – se in funzione – accoglienza a centinaia di malati sia ordinari che colpiti dal virus.

Un esempio? Il presidio di Acri, dotato nel 2018 di una risonanza magnetica e una Tac costate due milioni e mezzo di euro rimaste ad ammuffire tra le ragnatele mentre intere ale del nosocomio sono inutilizzate.

Cambi provincia e non cambia la storia: a Taurianova, un tempo centro di eccellenza, dove era stato realizzato un reparto di Medicina con stanze addirittura cablate, non ci si ricovera più. Così nelle vicina Cittanova, un tempo punto di riferimento nell’Ortopedia; Oppido Mamertina ora divenuto sede di lunga degenza e sottoutilizzato; Palmi in cui è rimasta nel nosocomio intestato al grande oncologo Francesco Pentimalli solo la eccellente camera iperbarica e null’altro: le nuove camere operatorie realizzate dieci anni addietro non sono mai state aperte e il nosocomio è diventato sede di uffici e di un Punto di prima emergenza che, sembra un paradosso, è posto accanto alla guardia medica.

E che dire dell’ospedale di Scilla, a lungo faro sanitario della Costa Viola e poi destinato ad una Rsa mai entrata in funzione; poi c’è Gioia Tauro, individuato come centro covid con 40 posti letto rispetto ai quali manca però al momento il personale: si tratta peraltro di un presidio in passato mortificato per via della sua sostanziale sottoutilizzazione.

Se ci si sposta nell’area ionica del Reggino s’impatta con quel che resta del presidio di Siderno, con i poliambulatori di Brancaleone e Monasterace e con il “cadavere” di cemento e ferro dell’ospedale di Gerace, costruito e mai aperto. Poi c’è il nosocomio di Locri costretto a sobbarcarsi il peso di tutta l’utenza della fascia geografica (140.000 persone) in condizioni di obiettiva difficoltà e ancora sprovvisto del famoso laboratorio di processazione dei tamponi invocato a gran voce dal sindaco Giovanni Calabrese e mai allestito.

Cosa sia il lavoro medico nella città di Zaleuco lo si comprende dalle parole dell’ex primario del Pronto soccorso, Giuseppe Zampogna: «Siamo arrivati ad avere» racconta «fino a 50.000 accessi all’anno operando in condizioni davvero complesse».

Risalendo per decine di chilometri, seguendo in parte il percorso intrapreso negli anni Cinquanta da Pierpaolo Pasolini, si arriva fino a Cariati, nel Cosentino. Lì c’era un ospedale con 100 posti letto e reparti efficienti di cui non è rimasto nulla. È stato ridimensionato e riconvertito in struttura ambulatoriale.

E lo stesso è accaduto nell’Esaro con il presidio di San Marco Argentano e, in questo caso, con un’aggravante: nel 2010 furono stanziati 8 milioni e mezzo per  rimetterlo in piedi ma nessuno li ha mai spesi. Pochi giorni fa il sindaco, Virginia Mariotti e il collega di Roggiano Gravina, Salvatore De Maio, sono scesi in piazza con i cittadini per reclamare spiegazioni e interventi. Uguale il destino del nosocomio di Trebisacce, riconvertito ad altre funzioni e invece per anni avamposto di soccorso e cura, con 80 posti letto, in un’area vasta e importante della Calabria settentrionale ionica.

Lungo la fascia tirrenica un altro scandaloso esempio di come siano stati dilapidati piccoli tesori della sanità pubblica è rappresentato dal nosocomio di Praia a Mare, un struttura efficiente e moderna ridimensionata a tal punto da spingere il sindaco, Antonio Pratticò, a fare ricorso al consiglio di stato per chiederne la riapertura. Un ricorso accolto dai giudici amministrativi ma rimasto inefficace.

A pochi chilometri sorge l’ospedale di Scalea, costruito e mai adoperato, se non in minima parte, diventato l’icona dello sperpero e della inettitudine. Nell’area albanese della Calabria svetta il presidio di Lungro, con decine di posti letto rimasti chiusi per effetto delle tristemente note riconversioni e, oggi, assolutamente sottoutilizzato.

Poi, a ridosso del Pollino, nell’Alta Calabria, la storia del presidio di Castrovillari con quattro sale operatorie costruite e mai aperte costate sei milioni di euro e un laboratorio di analisi che potrebbe rivelarsi indispensabile in questa fase per la processazione dei tamponi e dei test sierologici ma che rimane ancora privo del personale e delle strumentazioni in questo senso necessarie. E ciò nonostante i solleciti e le richieste fatte dalle associazioni di volontariato.

Paola, quattro posti di terapia intensiva, perfettamente allestiti rimangono indisponibili e non si capisce perché: il consigliere regionale Graziano Di Natale ha presentato un esposto alla magistratura inquirente.

In mancanza di posti letto viene da domandarsi pure perché strutture ospedaliere come quelle di Pizzo, Nicotera e Soriano, nel Vibonese,  siano state nel tempo adibite ad altre funzioni e non possano essere rimesse in piedi e rese funzionali agli scopi: vi sono interi reparti ancora intatti che giacciono abbandonati.

È stato pure depotenziato il nosocomio di Tropea per decenni punto di riferimento di un’area ad alta vocazione turistica come la “Costa degli Dei”. E come non citare la storia di declino del nosocomio “Guido Compagna” di Corigliano Rossano, terza città della Calabria, dove il pronto soccorso ha rischiato per giorni di essere chiuso per mancanza di medici.

In provincia di Crotone esiste invece solo un ospedale pubblico, il San giovanni di Dio sito nel capoluogo che da 720 posti letto del passato è sceso ad ospitarne meno di trecento. Ma il dato singolare è un altro: nel Crotonese vi sono più posti letto privati che pubblici, per via della presenza di cliniche e di residenze assistite.

Infine, dulcis in fundo, come direbbero i saggi latini, ci sono gli ospedali promessi nel 2007, messi a gara con le procedure urgenti della Protezione civile e di cui non v’è ancora traccia dopo 13 anni. A Palmi, nella Sibaritide ed a Vibo tutti aspettano il loro innalzamento. Sullo sfondo, però, le popolazioni, più volte scese in piazza, appaiono quasi rassegnate ad assistere all’ennesima storia di grandi incompiute che perseguita la Calabria.

È questa la mappa del disastro, cui ha recentemente fatto riferimento il procuratore Nicola Gratteri, nemico giurato di affaristi, faccendieri e mafiosi e della quale dovrà tenere conto il nuovo commissario alla sanità e, con lui, pure gli straordinari medici volontari di Emergency.

Di Arcangelo Badolati tratto da gazzettadelsud.it

https://calabria.gazzettadelsud.it/articoli/cronaca/2020/11/20/la-mappa-del-disastro-degli-ospedali-calabresi-nel-crotonese-piu-posti-letto-privati-che-pubblici-5ccbc4a5-e567-4bdd-ab19-a5d7102081f2/