Bianco è una piccola cittadina della Locride aggrappata sulla prime propaggini dell’Aspromonte che guarda lo Jonio.
Poco più di 4mila gli abitanti, qui un po’ tutte le famiglie hanno da coltivare appezzamenti di vigna di Greco, da cui il raffinato Greco di Bianco Doc dai sentori che incrociano il mare e la montagna. Ma con elevato potenziale di crescita, come risulta da studi condotti dall’equipe del professore di Vitivinicoltura dell’Università di Milano, Attilio Scienza. A cui il Sindaco della cittadina Aldo Canturi ha conferito la Cittadinanza onoraria.
L’evento si è tenuto in concomitanza con l’inaugurazione del Museo del Vino di Bianco, dove sono raccolti numerosi reperti e testimonianze della civiltà contadina e palmenti di vinificazione che risalgo a epoche remote. Non a caso nella sua prolusione, Scienza ha lanciato il progetto di fare di Bianco la Capitale mondiale dei palmenti.
Di questo evento, e subito dopo la scheda sul vino in Calabria, ne scrive in esclusiva per “TerraNostra” il collega e amico Mimmo Vita, esperto di agricoltura e ambiente e per 11 anni e fino allo scorso aprile presidente dell’Unaga, l’Associazione nazionale giornalisti agricoli della Federazione della Stampa.
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Ci sono vini prodotti in Calabria di gran nome ma il cui consumo non pareggia la loro fama. Si chiamino Cirò, un rosso (in prevalenza) di grande fattura dal nome dell’omonima città sullo Jonio e prima Doc regionale o Terre di Cosenza o Greco di Bianco, sta di fatto che l’apparente contraddizione ha la sua ragione d’essere nell’approccio assai modesto degli agricoltori calabresi alla vitivinicoltura.
Approccio ben diverso, per intenderci, da quanto accade in regioni confinanti come Sicilia e Campania che della vitivinicoltura di pregio hanno fatto tesoro.
Il fatto è che in questa regione, dove la montagna la fa da padrone, sono all’incirca 10mila gli ettari in coltura viticola (80% Doc e Igt) per una quantità di prodotto che oscilla tra 120 e 130mila ettolitri. Come dire, meno dello 0,30% del totale nazionale.
Una inezia per quantità assoluta, non già per espressioni qualitative, poiché dopo anni di marginalità qualcosa sta cambiando anche in Calabria. Talché accade che sempre più “nasi” si stanno convincendo delle carature gustative e olfattive di pregio insite nei vini di questa terra, che la storia narra essere nata qui Enotria. (ndb)
di Mimmo Vita
Buono il vino, per carità. Ancor più buono se mentre lo degusto si creano quelle magiche condizioni che lo rendono veicolo di sensazioni e sentimenti. Straordinario poi se ne riconosco le caratteristiche intrinseche, olfattive e al palato, che mi proiettano in un viaggio virtuale e reale, inimitabile.
Ma è davvero affascinante il vino quando si dimostra sintesi dell’ampiezza diacronica di un territorio, portando in sé la sapienza del tempo, con le gioie e le fatiche dell’uomo che lo ha mantenuto e perpetuato.
È il caso del vino Greco di Bianco, Doc dell’omonima cittadina della Calabria jonica grecanica: terra di essenze naturali (gelsomino e bergamotto), di arsure chiare (i calanchi), di storia antica (gli scavi ellenistici di Locri Epizephiri e la splendida villa romana di Casignana, ad esempio); di vini tinti forti (il rosso di Palizzi), le cui uve guardano e sentono, dal sud più sud d’Italia, dal monte aspro, il mare e in lontananza l’Africa.
È terra di sbarchi, la Magna Grecia calabra. Si narra che nel VII° sec. a.C, nella splendida scogliera di Capo Bruzzano (comune di Bianco, un tempo Capo Zefirio), zona in cui secondo Strabone sbarcarono i Locresi, giungessero le navi dei nuovi coloni per insediarsi in quest’area allora veramente paradisiaca. Ora meno: i romani, sempre bisognosi di legname, procedettero secoli dopo con una sorta di disboscamento sistematico, da cui questa terra non si è ancora del tutto ripresa. Sbarcati, i greci piantano anche le loro viti.
Attilio Scienza, professore all’Università di Milano e massimo conoscitore di viticoltura a livello mondiale, dice che si trattava di una Malvasia, presente in tutto l’Adriatico e oltre. Raccolte, facevano passire le uve al sole e le spremevano, per un vino dolce e rinomato, come indicato dal poeta Esiodo.(il prof. Scienza al centro della foto, con pantaloni chiari)
Il disciplinare aggiornato del Greco prevede ancora il mantenimento di questa pratica. E le medaglie che ultimamente i pochi produttori di questa Doc stanno riscuotendo (al Vinitaly, alla selezione del Sindaco delle Città del vino, etc.) indicano la qualità del prodotto.
Ci Sono le “fiumare” in questa zona difficile e paesaggisticamente intrigante, descritta nei suoi racconti da Corrado Alvaro, che era di San Luca, poco sopra Bianco. Scendono dall’Aspromonte al mare a pochi chilometri una dall’altra, hanno larghi letti colmi di grossi ciottoli bianchi, relitti di un tempo che fu.
Allora erano navigabili, come “La Verde”, quella di Bianco, cui è dedicato il Museo inaugurato nei giorni scorsi proprio da Scienza, voluto dall’amministrazione comunale e dedicato all’agronomo Rodolfo Ambrogio, che tanto fece per il Greco Doc. All’interno si narra la millenaria relazione tra territorio e vino, partendo dall’alto.
Le fiumare hanno scavato il territorio, peraltro fragile. Infatti dal mare si innalzano subito i versanti del massiccio centrale che domina la Calabria del sud, l’Aspromonte. Ecco perché la Magna Grecia fu interessante per quei colonizzatori. C’era il mare, via dei commerci. C’era l’acqua dolce che scendeva copiosa dal monte, utile per navigare e far vivere, i terreni e le popolazioni.
La vite, come logico, fu piantata in alto. A 200, 300 e più metri d’altezza. E furono costruiti i “palmenti”, oltre ottocento nella Locride. Sono il luogo in cui avveniva la pigiatura dell’uva per produrre il mosto. Presenti in tutto il mediterraneo fino alla Georgia (patria del vino più antico al mondo, 8000 anni fa), sono stati molto utilizzati tra l’età ellenistica e quella romano imperiale ma qui, pare per alcuni, utilizzati ancora il secolo scorso.
Di questo ha parlato Attilio Scienza durante la cerimonia di inaugurazione del Museo – presenti anche l’Assessore regionale Maria Teresa Fragomeni, il direttore dell’Associazione nazionale Città del Vino Paolo Benvenuti, con il Sindaco Aldo Canturi che ha conferito la cittadinanza onoraria al Professore. Il quale, nell’onorare il lavoro di Orlando Sculli (autore del censimento della quasi totalità dei palmenti dell’area e del catalogo di molte varietà autoctone di vino a salvaguardia dell’alta biodiversità vitivinicola locale), ha lanciato il progetto di “fare di Bianco la capitale dei palmenti”.
Attraverso il palmento, ha ricordato Scienza, noi studiamo non solo la storia del vino, ma degli usi e delle abitudini delle popolazioni locali dalla preistoria fino all’800 e forse il ‘900. Si tratta di strutture che ci parlano, questo Museo lo spiega bene. Fare di Bianco la sede di un Centro culturale internazionale, che potrebbe promuovere un incontro mondiale all’anno degli studiosi sui palmenti, colmerebbe una lacuna e farebbe di questa cittadina calabra un luogo di grande valore per il vino e la sua cornice culturale, oggi sempre più apprezzata.
, ha sentenziato Scienza. .
Il Mantonico, a differenza del Greco, può essere vinificato nella versione “ferma”, oltre che passito; e ha propensione anche alla spumantizzazione, molto richiesta dal mercato che vuole oggi vini bianchi ed emozionali.
Dalla locride, dalla Calabria grecanica, parte quindi una sfida innovativa e liberante. Che ovviamente dovrà fare il paio con una ripartenza sul piano turistico. Già molte novità sono state avviate da giovani realtà locali imprenditoriali e cooperative che valorizzano con lo straordinario litorale dal mare cristallino e dalle ampie spiagge per niente affollate, l’entroterra aspro ma affascinante, anche con percorsi a piedi ed in bicicletta.
Nascono agriturismi e ristoranti. Olio, vino, agrumi, orticoltura e la produzione di grano duro, sono i principali frutti della terra. Che in questo periodo di quasi inizio estate propone anche una piccola melanzana viola, con cui i locali creano un piatto straordinario, la “melangiana ‘mbuttunata”, spurgata, ripiena di pan grattato, misto grana e pecorino, prezzemolo…, cucinata con attenzione nel pomodoro, servita sola o con la pasta fileja tirata a mano… La sintesi di un territorio.
fonte: http://nicoladantebasile.blog.ilsole24ore.com