Non siamo déi

Se lo fossimo, consultando sfere fatte di cristallo – o di consimili fascinosi materiali – sapremmo secernere in un colpo il grano dal loglio.

Non essendolo, abbisogniamo d’affinare strumenti umani per disciplinare l’agire quotidiano. Come pure di reperire lenti puntuali per sindacare quelle, tra le condotte, che pensiamo essersi poste fuori dal perimetro che abbiam dato al lecito. Work in progress e su due fronti, insomma.

Succede allora che lo strumento “processo penale” vada evolvendosi in considerazione di nuove tappe del sapere e secondo modelli cognitivi poggiati su basi scientifiche e sempre meno esposti ai venti della “intime conviction”.

È in tale prospettiva che, nel 1989, il legislatore promulga il codice di procedura penale ancor oggi in vigore (seppure trasfigurato in volto da plurimi smottamenti legislativi e interpretativi).

Ma la scelta è epocale: la reversibilità non è contemplata.

La soluzione del caso resta, com’è ovvio, sulle spalle del “soggetto-che-giudica”; ma il lavorìo che conduce alla meta lo riguarda solo in parte: salvi i recuperi inquisitori che talvolta emergono d’un tratto (la gramigna è erba vigorosa), non è affar suo reperire le informazioni su cui erigere il verdetto. Si ciberà di tutte quelle che gli abilitati per legge vorranno fornirgli. Conoscere per giudicare.

La dinamica della conoscenza diventa allora un’erma bifronte: sarà più efficace quanto maggiori siano le informazioni su cui basa, ma, per quanto cospicua ne sia le messe, resterà monca tutte le volte in cui solo una delle facce sia stata debitamente illuminata. Una conoscenza parziale, anzi, una non-conoscenza.

Emerge l’idea di fondo. La contrapposizione di interessi è cuore del processo e perciò della conoscenza. Una partita, due giocatori, un arbitro.

È il sistema accusatorio che, dieci anni dopo il codice, trova cittadinanza di diritto nell’art. 111 della Costituzione: Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, di fronte ad un giudice terzo ed imparziale.

Stile asciutto, idea chiara, niente sbavature: due parti contrapposte, un giudice equidistante.

Fin qui nessun problema, almeno all’apparenza.

Il terreno circostante però è quello vecchio: accusa e giudice fan parte di un solo ordine, la magistratura. E, fino a tempi recenti, le toghe posson pure facilmente cambiare spalla. Unica la carriera, unico l’organo di controllo, il Consiglio superiore della magistratura, unitarie le valutazioni professionali e di disciplina. Così però l’equidistanza resta wishful thinking.

Nessuno se ne avvede per anni; o pochi: i malcapitati. E i loro difensori.

È in aula che Gordio serra il suo nodo: qui non ci sono sconti, se non per prove muscolari o quando un accident of personality porta in sorte galantuomini. Il resto è routine antiestetica: il sistema è sbagliato in radice. Nessuno giocherebbe serenamente una partita se il fratello dell’avversario fosse l’arbitro. Epperò il processo non è partita che si scelga: altri la sceglie per noi e non resta che giocarla con ciò di cui si dispone.

Ricondurre il sistema a ragione, aderire ai moniti delle scienze cognitive, della logica e del buon senso diventa allora imperativo. Anche perché si può fare senza sforzo, semplicemente ridisegnando i ruoli con le cautele del caso; senza drammi. Occorre separare chi giudica da chi accusa e siccome la politica non ha forza bastevole, non resta che esercitare democrazia diretta.

D’altro canto non c’è figlio d’Europa che non lo abbia già, un giudice così. Anche i cugini francesi, ibrida eccezione gerarchicamente orientata. I sistemi di common law vanno oltre: loro l’accusatore lo eleggono e la base democratica gli conferisce poteri di scelta ignoti al nostro. Ma è tutt’altra storia.

Parte così il progetto UCPI : un gioco dell’avvocatura, non per l’avvocatura. Sono in ballo i diritti, quelli del cittadino-imputato che, non colpevole presunto, vuole solo che il suo giudice sia come la Carta fondamentale lo descrive: terzo e imparziale.

Gli interessi però si sono stratificati negli anni e la riforma auspicata è di quelle che possono demolire fondamenta di potere. Le obiezioni, vere o presunte, si sprecano, qualcuno addirittura perde la calma. Le più ricorrenti:

A) “La separazione delle carriere priverebbe il Pubblico Ministero della cultura della  giurisdizione”

Se non acquisita per sensibilità personale e per studi, la cultura della giurisdizione non deriva dalla colleganza al giudice. Cultura della giurisdizione è cultura della prova, della sacralità della libertà individuale e delle comunicazioni, della presunzione di non colpevolezza. La cultura della giurisdizione appartenne a Calamandrei; non era giudice, ma avvocato. Obiezione vacua.

B) “La riforma proposta attenta alla autonomia ed alla indipendenza della magistratura”.

Stantìo, inutile argomento: tutto ciò che vorrebbe modificare stabili equilibri di potere giudiziario è così da sempre tacciato.

Ma:

1) l’autonomia del giudice risulta rafforzata. Lo si affranca da ogni liaison dangereuse con una delle parti processuali. La sua penna sarà libera: nessuno che debba giudicare dovrebbe esserne scontento.

2) l’autonomia del pubblico ministero non scema di un grammo. La riforma prevede l’istituzione di un Consiglio superiore della magistratura requirente, senza intromissioni di sorta.

E così si attende ancora di sapere quale misteriosa ragione dovrebbe sconsigliare una via che ciascuno pratica sin dai banchi di scuola: alla partita equa serve l’arbitro estraneo. Feroce magari, ma estraneo e perciò stesso imparziale, autorevole, indipendente. Davvero indipendente.

Del resto la raccolta firme ha già una storia: in 21 giorni 25.000 sottoscrizioni. Segno che i cittadini la questione l’hanno capita.

Non siamo déi. Ma uomini si. A volte pensiamo.

Comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il pubblico ministero, arbitro della controversia il giudice. Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere.

Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’anacronistico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza ed autonomia della magistratura”.

(Fondazione Giovanni e Francesca Falcone, Giovanni Falcone, interventi e proposte, 1982-1992, p. 179).

*Giuseppe Belcastro è avvocato penalista; vive e lavora a Roma. Esponente della Camera Penale capitolina,  è membro del Comitato di gestione della Scuola di formazione dell’avvocato penalista, nonché dell’Osservatorio Cassazione dell’Unione Camere Penali Italiane. E’ docente di Procedura penale alla Scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università Europea di Roma e collabora con riviste giuridiche quali “Parola alla Difesa”, Archiviopenaleonline.it e “il Penalista”, con articoli in materia di diritto processuale penale. Di recente ha assunto, per incarico del Comitato promotore, il coordinamento nazionale del Comitato organizzatore per la raccolta delle firme per la proposta di iniziativa popolare per la separazione delle carriere dei magistrati.

articolo di Cinzia Docile

tratto dal blog http://www.jobenquirer.it