Mimmo Lucano ha intuito la possibilità di creare un modello di integrazione diffusa, trasformando Riace in un sistema di welfare locale peraltro previsto dallo spirito dello Sprar. Quella intuizione, che agli occhi del mondo intero era diventata un modello da emulare, non ha però trovato spazio nel processo “Xenia”, dove l’ex sindaco è stato condannato in primo grado a 13 anni e 2 mesi di reclusione. Condanna impugnata dai difensori dell’ex amministratore di Riace, gli avvocati Andrea Daqua e Giuliano Pisapia, che hanno proposto appello evidenziando diversi errori che a loro dire inficiano l’intero iter decisionale.
Tra questi si rileva, a proposito del contestato reato di peculato, che nella motivazione si rimanda al contenuto di un’intercettazione che è risultata essere difforme da quella trascritta dal perito: «La gravità di detto errore – sottolinea la difesa – si riverbera su tutte le ipotesi di reato in quanto la condanna si basa proprio su detto erroneo dato. Sul punto questa difesa ritiene che Mimmo Lucano non solo non abbia mai tentato di creare alcun “falso alibi”, ma dal contenuto delle trascrizioni del perito del Tribunale e dalla corposa documentazione prodotta si evince, senza ombre di dubbio, che le attività (frantoio, case, laboratori, etc…) erano inconfutabilmente destinate ai progetti di accoglienza integrata a cui lo stesso Lucano ha dedicato la sua vita».
Leggi l’articolo completo di Rocco Muscari sull’edizione cartacea di Gazzetta del Sud – Calabria