Vero e proprio personaggio della Commedia può essere considerata la Fortuna , divinità arcaica, forse precedente alla fondazione di Roma .

Il carattere duplice di questa dea era espresso anche dalla tradizione iconografica . Talvolta la si rappresentava con il corpo ricoperto da vesti e recante sulla testa una corona , mentre altre volte con i seni nudi e recante sulla testa un elmo.

Questi due volti della dea, che Marziale chiamava sorores ( sorelle) rappresentavano due qualità differenti della dea : la prima più regale e composta , la seconda più bellicosa. Dante , nella sua riflessione sul destino dell’uomo, parte da una visione negativa della Fortuna come attesta il Convivio “nulla giustizia distributiva risplende ma tutta iniquitate quasi sempre” Di queste tesi è un evidente riflesso il ricorso al v.69 del canto VII al termine branche per indicare il modo rapace con cui la Fortuna mantiene e controlla i beni materiali . In questa digressione del canto VII , però il poeta si avvale delle riflessioni di Severino Boezio che nella sua opera DE Consolatione Fhilosophiae scritta mentre egli attendeva la sua esecuzione capitale , considera i repentini e spesso dannosi mutamenti del caso non solo come inevitabili ma soprattutto come provvidenziali , in quanto fanno parte del piano di Dio , a cui nessuno può opporsi . Secondo questa concezione , gli eventi , le decisioni umane e persino l’influsso degli astri fanno tutti parte della volontà divina.
Nasce ,cosi , in questo passo del canto VII, la visione dantesca della Fortuna che muta le vicende degli uomini , ma è ministra e duce dei beni che essa assegna e distribuisce per volontà divina.
E , poiche è una epifania soprannaturale , essa dovrebbe essere lodata proprio da coloro ai quali essa toglie i beni materiali . L’esserne privato dovrebbe costituire, per l’uomo , motivo di beatitudine eterna .
Professore Vincenzo Bruzzaniti