R. & P.
Da amministratori pubblici, assillati dagli impegni burocratici propri di un fronte di guerra dal nome Calabria, non abbiamo l’abitudine ed il tempo di essere assidui frequentatori di bar ed esercizi pubblici.
Il recente provvedimento di chiusura per 15 giorni di un noto bar di Varapodio, attuato dal Questore di Reggio Calabria e conseguente al lavoro preliminare dei Carabinieri, ci lascia però molto perplessi, non già per le finalità di contrasto alle cosche che lo stesso si prefigge, cui tutti noi miriamo, ma perché si continua, su ogni fronte, a combattere il virus della ‘ndrangheta con una chemioterapia devastante per l’intera società anziché con una cura mirata.
Viviamo infatti in un regime alterato di democrazia in cui (ahimè ordinariamente!) vengono attuati scioglimenti di consigli comunali come (solo per elencarne uno fra i tanti) quello di Scilla, in cui l’unico amministratore comunale ritenuto incandidabile dal Ministero dell’Interno, viene successivamente riconosciuto candidabile da un Tribunale della Repubblica, grazie a una sentenza che addirittura ne esalta i meriti in termini di risanamento dei conti pubblici e di rispetto delle normative.
Siamo altresì quotidianamente spettatori di continue misure interdittive su attività imprenditoriali e commerciali, non perché colluse, ma perché nel proprio albero
genealogico c’è un lontano parente condannato o indagato o più banalmente perché qualche pregiudicato é passato per questo o quel bar.
Volendo però accendere i riflettori sulla specifica vicenda, riteniamo che le forze dell’ordine e la Questura sarebbero dovute intervenire sui soggetti pregiudicati, ritenuti responsabili del potenziale disordine pubblico o contaminazione mafiosa e non sull’esercizio commerciale (uno dei pochi ancora rimasti “aperti” alle nostre latitudini).
Non è pensabile che l’eventuale violazione del singolo pregiudicato, reo (se così dovesse essere confermato) di non aver rispettato una prescrizione di legge, debba ricadere sull’economia di un piccolo centro e ancor peggio sulla onorabilità ed il buon nome della stessa attività commerciale.
Pertanto,
a meno che l’intervento restrittivo non sia stato indirizzato direttamente alla condotta personale del titolare dell’attività, dato non emerso sino a questo momento, cosa avrebbe potuto fare il povero esercente per evitare quanto occorsogli?
…Conoscere l’anagrafica giudiziaria di tutti i potenziali clienti oppure cacciare dal proprio esercizio pubblico dei cittadini in stato di libertà?!
Se la lotta alla ‘ndrangheta deve sacrificare i titolari di pubblici servizi e imprese o pezzi di Stato quali per esempio i comuni od anche la sanità pubblica anziché i “pregiudicati contaminatori”, già destinatari di misure restrittive, si rischia il deragliamento sociale e democratico.
Principio pericoloso che di questo passo potrà riguardare anche i centri di recupero, di riabilitazione, di reinserimento, le chiese, gli oratori etc etc poiché trasferisce tutti i poteri dell’ordine pubblico in capo alle forze dell’ordine, principio è prassi contrapposta persino al decreto Salvini che riconoscerebbe poteri notevoli in capo ai sindaci.
L’unico appello che in queste ore ci sentiamo di rivolgere ai grandi sistemi istituzionali e alle forze politiche, troppo distratte su questi temi, è di riconoscere la massima considerazione ai punti tracciati dalla relazione del Procuratore Generale calabrese Oreste Lupacchini, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. In essa, guarda caso, con grande dignità e non poco coraggio viene evidenziato sia il numero abnorme di scioglimenti di consigli comunali che gli errori giudiziari ad ogni livello. Non ci stupisce più di tanto che le testate giornalistiche nazionali non abbiano voluto dare rilievo alla notizia.