Piccoli archeologi crescono.

Il museo nazionale di Locri, diretto da Elena Trunfio, con la collaborazione del dottor Vincenzo Tallura, ha offerto a 25 bambini la possibilità di vivere un’esperienza indimenticabile: diventare archeologi per un giorno.

Nel pomeriggio dello scorso 20 agosto i piccoli partecipanti, muniti di paletta, foglio di carta e matita, si sono dati appuntamento all’ingresso, per partecipare a un’attività laboratoriale.

“Secondo voi dove ci troviamo?”, li interroga subito Tallura. “Al museo di Locri”,  rispondono con prontezza. La visita è un appuntamento rituale per molti di loro, che tornano, ogni estate, con le famiglie originarie di queste terre, a rinsaldare di anno in anno il legame con le proprie radici.

“Ma che cos’è un museo?” E a fronte di una certa titubanza, Tallura lo paragona “a un grande contenitore” per collocare i reperti rinvenuti, “che sono qui, e non a casa di chi li trova, in quanto bene dello Stato, per consentire a tutti di poterli ammirare”. E sottolinea l’importanza della struttura museale, polo di divulgazione e conoscenza di civiltà scomparse.

E’ molto bravo, Vincenzo, ad accattivarsi i piccoli allievi, rendendo loro accessibili argomenti complessi col ricorso a immagini ed esempi concreti.

Nell’immaginario infantile l’archeologo è un romantico esploratore a caccia di avventure, alla ricerca di tesori e misteri sepolti. “Ma oltre a scavare e a effettuare ritrovamenti, suo compito è anche quello di documentare, tutelare e valorizzare i reperti”, precisa T, accompagnando i ragazzi nella prima sala, dove familiarizzeranno con le differenti tipologie di materiale che andranno a incontrare durante la simulazione di scavo: ceramica, metallo, pietra, materiali ossei, legno.

Partendo dall’osservazione dei vasi e delle loro figure, dopo una breve distinzione tra tecnica a figure nere e rosse, ci si sofferma sulle differenze stilistiche, su come sul fondo in terracotta, vengano dipinte le figure con i particolari dei vestiti e dei capelli in vernice.

Oltre alla ceramica, l’archeologo mostra alcuni strumenti musicali molto ben conservati: piccoli flauti (auloi) in osso e una lira la cui cassa di risonanza è costituita da un carapace di tartaruga originario del V a. C. . “E al posto delle corde, venivano utilizzati crini di cavallo”, aggiunge.

Le coppette e le lucerne in miniatura, doni votivi dei fedeli, vengono invece confrontate con gli oggetti strumento del rituale sacerdotale, per farne notare le diverse dimensioni e modalità di utilizzo.

“Ricordate che gli oggetti vengono rinvenuti, il più delle volte, in frammenti e poi ricomposti in fase di restauro, integrando le parti mancanti con un diverso materiale”. E viene mostrata l’esempio di un’arula votiva di uso domestico, di cui i bambini possono cogliere le tracce di una paziente opera di ricostruzione.

Ma è tempo di uscire, per “sporcarsi le mani” all’ombra della pineta, dove ad attendere gli allievi sono due cassette riempite di terra, simulazione di due settori di un’area di scavo, due secchi colmi d’acqua per pulire i reperti e un lungo tavolo di lavoro.

“Ma in cosa consistono le varie fasi operative? E con quali strumenti opera un archeologo?”

Il paziente insegnante spiega come solo dopo la rimozione degli strati di scarso interesse, con piccone, pala e carriola, si operi su quello antico, lavorando “di fino” con l’aiuto del trowel, una piccola cazzuola di forma romboidale, costituita da un unico pezzo metallico, compagno inseparabile di ogni archeologo, che si consuma con l’uso, assottigliandosi di scavo in scavo, simbolo di una vita consacrata a una passione. Prima della rimozione, un responsabile segna il punto di ogni ritrovamento su un foglio di rilievo (vengono già selezionati, per questa mansione, i tre partecipanti più grandi, uno per gruppo). Si passa poi al laboratorio, dove i reperti vengono lavati e accuratamente ripuliti con spazzolini e pennelli, per essere disegnati, fotografati e infine catalogati.

In questa fase entrano in gioco il profilometro, per rilevare i contorni degli oggetti, e il calibro per misurarne lo spessore; quest’ultimo viene mostrato e fatto girare tra i bambini e alcuni proveranno a utilizzarlo quando saranno chiamati a disegnare i reperti trovati (lo spessore, la facciata esterna, o solamente il contorno, a seconda delle età e delle capacità). Tallura mostra infine un metrino, da posizionare sotto a ogni oggetto al momento dello scatto fotografico dall’alto, utile per dare l’idea delle dimensioni. Solo dopo la catalogazione del materiale di documentazione prodotto e la schedatura, il reperto può passare ai depositi dei musei. Deve farne, di strada, prima di riposare placidamente nelle teche in cui lo ammiriamo: dietro a ogni sala museale si nasconde infatti il lavoro serio e appassionato di tanti operatori, perchè “l’archeologo lavora sempre in team, con l’antropologo, l’archeobotanico, l’architetto, il paleontologo”, spiega Tallura, facendo intuire ai ragazzi come questo sia un “lavoro di squadra”, frutto di una collaborazione interdisciplinare.

A questo punto, suddivisi in tre gruppi, gli allievi si cimentano, a rotazione, nelle varie fasi di lavoro. Ma prima di iniziare si raccomanda loro cautela, ricordando che questo mestiere “non è solo adrenalina e poesia, ma anche precisione, sacrificio e sudore sotto il sole”.

“Scava piano, sennò si possono danneggiare i reperti”, ricorda Flavia a un suo compagno di scavo. Ed è lei, la bimba più piccola, a trovare il reperto più grande e forse il meglio conservato: un vasetto in ceramica che mostra fiera alla madre.

Lavorando sul campo e in gruppo, i bambini imparano a cooperare e nello stesso tempo apprendono che dietro a fatica e abnegazione possono nascondersi gioie immense, in grado di ripagare ogni sforzo; che la passione è il più potente anestetizzante, il più efficace ricostituente contro ogni stanchezza.

Il laboratorio volge al termine; dopo un riepilogo finale, gli aspiranti archeologi ricevono, uno a uno, il proprio diploma, che sventolano fieri davanti agli occhi dei genitori. E, titolo di studio alla mano, ci si sposta dentro al museo, per un’ultima foto di gruppo davanti alla vetrina del Thesmophorion.

Ma molti si fermano ancora: chi per scattare una foto ricordo con il bravissimo insegnante, come fa Edoardo, chi per un ultimo giro nelle sale, come accade a diverse famiglie, compresa la mia. E colpisce come siano i bambini stessi a trascinare i genitori di teca in teca, a formulare domande davanti agli oggetti esposti, a riconoscere i reperti rinvenuti, come fa Anna davanti ai pesetti attaccati al telaio riprodotto al primo piano.  Mentre Luca, avviandosi verso l’uscita, chiede ai genitori di poter tornare ancora, per ammirare con calma i reperti del museo e per un giro all’esterno fino al tempio di Marasà, a cui Tallura ha fatto cenno sulla via del ritorno.

In fondo erano proprio questi gli obiettivi del laboratorio: insegnare ai più piccoli il valore della cultura antica e della storia, sensibilizzarli alla tutela di un patrimonio comune, abituarli allo spirito di collaborazione e al lavoro in equipe. Obiettivi pienamente raggiunti, grazie a un appassionato archeologo che ha saputo coinvolgerli, scegliendo, per farglisi più prossimo, di “abbassarsi, inclinarsi, curvarsi, farsi piccolo”; o forse, al contrario, di “innalzarsi fino all’altezza dei loro sentimenti”. Perchè, come fa notare J. Korczak, tutto dipende dai punti di vista.

Livia Archinà