Il 15 aprile 2012 P. Stefano De Fiores lasciò questa terra. E la nostra famiglia ed un intero paese nel dolore. E’ stato forse l’unico profeta in patria.

Intuii che la sua salute preoccupava quando una sera al telefono quella che sentii non era più la sua voce. Ma ne era una ingiallita, di cartavetrata quasi. Eppure lui mi rassicurò.

… Era il giovedì santo. Venne a trovarmi verso mezzogiorno, non si fermò a pranzo come soleva fare e mi rassicurò sulla sua salute, ma si vedeva che soffriva e cercava di nascondermelo. Capii troppo tardi ch’era venuto a salutarmi per l’ultima volta, quasi a rimarcare ancora “l’affetto speciale che ho per Mario”. Infatti la sera in chiesa ebbe un mancamento. Rifiutò di farsi ricoverare. Ma dovette farlo il giorno dopo quando la sua situazione diventò critica. Poi il pomeriggio del 15 aprile arrivò la terribile notizia ed il mondo parve crollarmi addosso. E, col pianto, tornarono i ricordi. Eravamo cresciuti nella stessa casa, anche se lui vi tornava solo un mese d’estate. Ed allora era festa. Aspettavamo con ansia il suo arrivo e quando zia Natalina settimane prime l’annunciava, l’attesa diventava frenetica. Sempre buono e paziente, perfino con me ch’ero il più piccolo della nidiata e gli chiedevo sempre o qualche acquerello, oppure d’intagliarmi delle statuette nel tufo. E regolarmente finivamo entrambi impolverati. Pochi sanno che P. Stefano era anche un grande e poliedrico artista che disegnava, scolpiva, si dilettava con ottimi risultati di critica letteraria, e suonava tromba, fisarmonica, chitarra, organo e pianoforte. Poi  col tempo diventò il più illustre mariologo del mondo, senza cambiare di una virgola il suo atteggiamento: un mare di bontà e di comprensione era prima, ed un mare di bontà e di comprensione rimase sempre. E soprattutto, serenità aveva distribuito da sempre e serenità continuò a distribuire sin sul letto di morte fedele al motto scelto per le immaginette della sua ordinazione: “Fa’ che dov’è l’odio, io porti l’amore”. E lo realizzò a pieno

Amava tanto il nostro paese, soffrendo intensamente quando la stampa ne parlava male. Ed amava Polsi al punto da riuscire a prepararvi un convegno mariano internazionale convocandovi i più apprezzati mariologi del mondo.

Ma non ne fu ricambiato. E non so se questo contribuì alla sua morte … Ma certo ne soffrì ed in silenzio, come del resto era nel suo costume. I ricordi, dicevo. E ne tralascio i più belli forse perché svaniscono prima per lasciare il posto a quelli amari e ti danni per individuare il motivo per cui gli vennero perpetrati certi torti, giusto a lui che i torti non era nemmeno capace di concepirli, essendo l’Omnia munda mundis” per eccellenza.

Piovigginava quel venerdì santo di qualche anno fa. E la luce dei lampioni prolungandosi nelle pozzanghere s’affievoliva, s’allontanava ed intristiva il viale mentre un vento freddo da Montalto contribuiva a creare un’atmosfera adeguata al doloroso dramma che si celebrava nelle chiese. E P. Stefano arrivò inatteso. Si sedette, stanco e visibilmente amareggiato, nella poltrona vicina al caminetto con atteggiamento che non era il suo. E quando gli chiesi come mai non fosse a San Luca a “chiamare la Madonna”, mi rispose che il vescovo aveva deciso di chiamarla lui. Non ci perdemmo lì a commentare che anziché d’uno scherzo da prete se ne trattava d’uno di vescovo. Ma capimmo subito l’enormità di quello scippo che rappresentava uno schiaffo a lui e soprattutto al paese che attendeva da sempre la sua parola. Qui occorre aprire una parentesi per dire che quel vescovo, che onestamente non mi sembra un’aquila, doveva coltivare irrefrenabile, la vocazione a scassare i … pardon a indispettire la  nostra famiglia. Diversamente non si spiegano né l’iniquo trattamento a P. Stefano e né il suo plagio di un mio articolo. E mi spiego. Vedendo una volta, una trasmissione dell’amico Pino Carella da Polsi, lo sentii urlare tronfio – il vescovo non Pino, ovviamente – “Polsi è tornare bambini …” ed altro. Proseguì cicalando altre parole che io conoscevo ed alla fine quando chiuse, fu seppellito da un uragano di applausi che, senza falsa modestia, toccavano a me. Eh sì perché questo vescovo aveva urlato quasi pari pari un mio articolo pubblicato qualche giorno prima su “La Riviera” senza avere il pudore non solo di fare il mio nome, ma nemmeno quello di confessare che quanto aveva detto non era farina del suo sacco. E se questi sono i suoi vescovi, la Chiesa ha davvero di che scialare. Povero papa Francesco.

Oddio, gli applausi glieli lascio perché degli applausi non so che farmene. Però mi domandai che cavolo di predicatore poteva essere uno che per mettere insieme quattro parole decenti s’era ridotto a plagiarmi.  Pensateci brava gente, prima di dar retta ai vescovi che scippavano le prediche a P. Stefano.

Torniamo a noi. Quando vidi P. Stefano mortificato, ebbi un gesto di ribellione e gli dissi che salivo a san Luca per dire ai fedeli che quel vescovo gli aveva scippato la predica. “Non è giusto – gli urlai – è un’offesa per te e per il nostro paese. Perché se ha tanta voglia di predicare non lo fa a Locri, o in altri paesi. Perché proprio a San Luca? Cosa abbiamo di diverso dagli altri noi? E che abbiamo in fronte il marchio di Caino? No, giusto a te questo torto non doveva farlo. Andiamo a dirgliene quattro …”  Senza muoversi dalla sedia mi disse . “Siediti, statti fermo, nNon ti ricordi che ho fatto il voto di povertà, castità e obbedienza? E se il vescovo ha deciso così, non mi resta che obbedire”. Per lui il discorso era chiuso.

La sera stessa l’accompagnammo a Bovalino Superiore. E non appena si sparse la voce della sua presenza il paese cominciò a traboccare di persone accorse dai centri vicini.  Io intanto mi laceravo dentro. Non capivo come mai un missionario conteso da tutti i più rinomati santuari del mondo, la cui parola era richiesta a Fatima, Lourdes, Guadalupe, Pompei, e che tra l’altro era consigliere segreto del papa, non potesse parlare in quel suo paese che tanto amava per una stramba decisione d’un vescovo arrogante che, in aggiunta, non sapeva nemmeno predicare.

Naturalmente quando P. Stefano ci lasciò ai funerali il vescovo ne disse meraviglie. Si offrì a tutte le televisioni, ma non giustificò per nulla quella sua decisione che tanto aveva amareggiato mio cugino. Me ne andai dalla chiesa nauseato e pregai “Padre Sté, non perdonare loro perché sapevano benissimo quello che ti facevano”.

Poi al cimitero, suo fratello Tito che piangeva a dirotto, mi esortò: “Mario, non piangere perché adesso abbiamo un santo di più di un cielo”. Non gli disse che avrei preferito un santo di meno in cielo e quel cugino in più sulla terra. Ma lo pensai, sicuro che da lassù P. Stefano avrebbe sorriso.

articolo di Mario Nirta tratto da https://www.pinocarellachannel.it/