Sono state depositate dalla Corte di Assise di Palmi (presidente e relatore Francesco Petrone, a latere Anna Laura Ascioti) le motivazioni della sentenza di assoluzione di Domenico Berdj Musco dall’accusa di aver concorso nell’omicidio dello zio, il barone Livio Musco, ucciso a Gioia Tauro presso il palazzo Musco il 23 marzo 2013
I termini usati dalla Corte nel pronunciare l’assoluzione dell’imputato, difeso dall’avvocato Antonino Napoli, sono perentori: “si impone per Berdj Musco una pronuncia largamente assolutoria per il delitto di omicidio ascrittogli in concorso con il Mazzaferro (capo A) e, conseguentemente per il connesso concorso nella detenzione dell’arma usata (capo B); pronuncia che peraltro giunge (e si tratta di davvero amara considerazione) all’esito di un lungo processo, che ha impegnato la Corte in molte udienze, è costato non poco in termini di risorse umane e materiali, che non avrebbe nemmeno dovuto conoscere richiesta di rinvio a giudizio e prendere avvio”.
I giudici di Palmi hanno ritenuto che “l’istruttoria dibattimentale, se per un verso ha consentito di individuare (davvero senza incertezze, come ci si accinge a dire), nello scomparso Teodoro Mazzaferro (detto Toro) l’autore dell’omicidio per cui è processo, non ha al contrario offerto alcun serio elemento di prova in grado di dare sostanza dimostrativa all’assunto d’accusa di un concorso dell’odierno imputato, Berdj Domenico Musco nell’omicidio”.
“Può dirsi anzi, già in incipit alla presente motivazione, e non certo solo con il c.d. “senno del poi”, che – hanno aggiunto – già le emergenze raccolte a carico dell’odierno imputato in fase di indagini fossero a tal punto evanescenti che la stessa Corte, nemmeno in esito alla lunghissima istruttoria svolta, ha potuto infine comprendere quali siano stati gli elementi di fatto venuti dalle indagini che mossero l’ufficio di Procura ad assumere, in tesi d’accusa, il coinvolgimento del Musco …, nipote della vittima, nell’omicidio dello zio; al riguardo, si è riusciti solo a formulare mere, peraltro labilissime, ipotesi, che sono parse comunque tali da non poter giustificare, non solo un processo per omicidio, ma pure la defatigante istruttoria svolta”.
Ad avviso della Corte di Assise, infatti, “Non è stato acquisito nemmeno un principio di prova di un qualche legame tra l’imputato e l’esecutore materiale (appena conoscenti) che potesse dare già solo una parvenza di sensatezza all’ipotesi di un accordo omicida tra i due; ché in ogni caso le modalità dell’omicidio, ed in particolare l’assenza di evidenze circa un qualche contributo materiale nell’azione omicida riservato al Musco … a giustificarne la presenza sul luogo di esecuzione, conferiva una incomprensibile arditezza alla scelta di eseguire l’omicidio proprio all’interno della casa dove pure il presunto mandante viveva ed essendo lo stesso pure al momento presente”.
Nella sentenza si legge poi che è “Inevitabile infatti la considerazione (di buon senso) che a voler concorrere nell’omicidio il Musco Berdj avrebbe corso ben minori rischi di coinvolgimento nel programmare un’azione contro lo zio fuori casa, magari durante i suoi spostamenti quotidiani, piuttosto che essere presente all’omicidio commesso in casa”.
Ed ancora: “non il più esile indizio dell’esistenza in capo al Musco Berdj di un qualche interesse per la morte prematura dello zio, od anche solo di un qualche intento malevolo verso questi, che potesse fungere da movente. E tanto anche solo per una qualche intesa propostasi e attuatasi nelle stesse fasi esecutive in forma di adesione istantanea all’azione omicida già autonomamente deliberata dal Mazzaferro. Nessun movente dunque”.
“Senza contare che pure ove pure ne fosse emerso uno – scrivono i giudici – tanto sarebbe valso al più ad attribuire minima dignità solo ad una mera ipotesi investigativa, ferma e insuperabile restando in ogni caso la necessità, perché assurgesse ad autentico addebito, di verificarne probatoriamente la concreta, fattuale, consistenza. Al contrario, e duole davvero constatarlo, si è prima costruita e – peggio – poi coltivata in sede processuale dibattimentale nei confronti del … Berdj un’imputazione di straordinaria gravità, l’accusa di concorso in omicidio dello zio, pur di fronte alla patente vacuità di evidenze che la rendessero anche solo razionalmente credibile in chiave di mero sospetto e, soprattutto, in totale difetto di dati fattuali di riscontro probatorio, anche solo indiretto ai sensi dell’art. 192 co. 2 c.p.p.”.
I giudici di Palmi quindi dicono di fare “fatica” e “davvero nel dover constatare che, pure a fronte dell’integrale riscontro oggettivo alla versione dell’imputato circa gli accadimenti immediatamente precedenti e successivi al ferimento dello zio che minavano alla base l’ipotesi di un suo coinvolgimento, a carico del Musco Berdj si siano potuti ritenere indizianti del concorso in omicidio”
I magistrati elencano infatti la circostanza che lo stesso abbia dichiarato “(peraltro dal primo istante, come rivelato dall’intercettazione all’interno della sala d’attesa della Compagnia CC di Gioia) di non aver sentito i due colpi d’arma da fuoco esplosi al piano di sotto contro lo zio, ma piuttosto un unico forte rumore che aveva attribuito alla caduta di quale pesante oggetto, forse un libro, cosa che non lo aveva minimamente scosso dal gioco elettronico in cui era impegnato al computer”
E poi: “la non particolare sollecitudine con la quale aveva corrisposto alla richiesta di aiuto urlatagli dallo zio Giuseppe dal piano di sotto dopo la scoperta del Musco Livio sanguinante e privo di sensi; c) la circostanza che sulla sua persona fossero state rinvenute quattro particelle GSR esclusive dell’innesco di armi da fuoco, distribuite in modo indefinito tra mani o guance da una parte e narici o orecchie dall’altro, e tre particelle sugli indumenti”.
L’avvocato Antonino Napoli, nel commentare le motivazioni ha voluto evidenziare che “nonostante la sentenza sia stata ampiamente assolutoria nei confronti di Berdj Musco il processo penale che ha dovuto subire, come ebbe modo di affermare Francesco Carnelutti nel 1946, è stato esso stesso pena. Il Processo penale, infatti, non infligge sofferenza soltanto dopo, alla fine, quando si perviene ad una pronuncia di colpevolezza; lo fa anche prima, lo fa durante. Pensiamo a quanto dolorosa ed infamate possa essere stata per Berdj Musco l’accusa di aver concorso nell’uccisione del proprio zio”.
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