Angelo Macrì vive a New York ed è COO per Kiton, la casa di moda napoletana attiva nel settore di lusso. Prima di lavorare per Kiton, però, Angelo Macrì ha vissuto il vero american dream, arrivando in America con la moglie dopo aver vinto la Carta Verde. Nonostante le difficoltà di chi lascia la propria terra per seguire un sogno, lui ce l’ha fatta ed oggi, ci racconta in quest’intervista, lavora per una delle aziende italiane più importanti all’estero.

Allora Angelo, partiamo subito con una domanda. Come ti sei trovato in America? Raccontami il tuo sogno americano

Io dico sempre: God Bless America every single day. Sono stato davvero fortunato a venire qua, prima di tutto con mia moglie e con i documenti: come dicevo prima, abbiamo vinto la Carta Verde, sia io che mia moglie. Abbiamo iniziato a lavorare da subito, partendo con il piede giusto. E nell’arco di 8 anni siamo riusciti a cambiare più volte lavoro, migliorando le nostre carriere. Quindi oggi mi ritrovo qui a lavorare per Kiton, un’azienda incredibile, un altro sogno realizzato. Qui non sei un numero, ma un membro della famiglia.

Qual è il tuo ruolo specifico in azienda?

Il mio ruolo è quello di Chief Operating Officer. Sono un direttore generale per il Nord America, sì.

Kiton, lo diciamo per i lettori, è un grande marchio napoletano di grande sartoria napoletana, storica, riconosciuta da tutti ed apprezzata in tutto il mondo: com’è percepita l’azienda in America?

È percepita, per farti un esempio, come la Bugatti dell’abbigliamento, ha una nicchia di mercato veramente straordinaria e una clientela milionaria. È riuscita a crearsi questa fama in America proprio in virtù della qualità della propria manifattura e dei tessuti. E ovviamente il prezzo. Ad oggi non abbiamo concorrenza: siamo il top nel mercato.

La clientela com’è composta? Sono italiani all’estero o sono più americani?

Qui in America sono soprattutto americani che vogliono vestire italiano con gusto e qualità. Il nostro cliente è preparato sull’abbigliamento, sui tessuti: sono sempre alla ricerca di tessuti unici. Ti faccio un esempio, noi compriamo il cashmere. Ovviamente ci sono fasce qualitative del cashmere. Noi compriamo la fascia top. E il motivo per cui la possiamo comprare è perché la clientela è disposta a pagare un prezzo alto.

C’è un grande ricambio di clientela o vi è una certa stabilità?

No, abbiamo clienti fidelizzati, anche ventennali, e nuovi clienti, soprattutto millennials, diciamo i più giovani che sono riusciti a fare carriera in breve tempo. Sono venuti a contatto con noi, sono riusciti a capire subito la qualità e l’importanza del brand.

Ma secondo te qual è la reputazione che vi siete creati  in America?

Top.

E la clientela?

Top, anche quella. Sono amministratori delegati, executive di JP Morgan, executive della FDA. Diciamo che va dal milionario al miliardario.

Ma secondo te quanto è importante l’italianità in America? Che percezione c’è del Made in Italy?

Beh, l’italianità tocca il design e la qualità. L’americano medio è abituato a comprare generalmente roba di media qualità. L’alta qualità la tocca con la tecnologia, mentre sulla moda si attesta in una posizione medio-bassa. Ieri stavo parlando con un cliente. Mi ha detto che quando compra italiano non ha bisogno di apportare modifiche perché, essendo magro, veste benissimo S. Le S americane sono enormi, quindi ogni volta deve farle modificare.

Hai avuto momenti di difficoltà  in America?

Inizialmente lo shock culturale. Nonostante avessi il lavoro con tutti benefit, quell’attaccamento alla comfort zone che avevamo noi – la famiglia, gli amici, la partita a calcio, i compleanni in famiglia, le feste -, tutto questo ti manca. Senti nostalgia, ed è durato per i primi due o tre anni. Poi dopo il terzo anno ha iniziato a sentirsi meno e dopo la nascita di mia figlia è completamente andato via.

Se tu dovessi dare un consiglio a chi vuole trasferirsi negli Stati Uniti, cosa gli diresti?

Innanzitutto, direi di farlo solo con un visto lavorativo, senza avventurarsi illegalmente. Sembra banale, ma qualcuno lo fa e continuerà a farlo, non lo possiamo nascondere. Però è un percorso che richiede davvero tanti, tanti sacrifici. Perché? Quando arrivi qua con un visto lavorativo l’approccio è diverso, le aziende ti chiamano perché hai delle qualità. L’azienda investe su di te perché puoi rimanere. È una relazione differente sin dall’inizio.

Tra i vostri dipendenti negli Stati Uniti c’è qualcuno venuto dall’Italia?

Assolutamente sì: la mia assistente è di Roma, il mio Financial director è di Arezzo. Alcuni li abbiamo portati noi direttamente da Napoli.

Tu sei venuto dalla Calabria e lavori in un’azienda napoletana: alla fine ti sei ritrovato tra italiani. Senti di lavorare comunque in qualche modo a casa?

Sì, questo mi aiuta. Da una parte mi aiuta, ma dall’altra mi occupa molto tempo perché mi sveglio presso la mattina: in Italia sono già al lavoro e io sono al lavoro con loro. Parte della mattinata la occupo a far quadrare il fuso orario.

È ancora perseguibile il sogno americano?

Per me assolutamente sì, ti ripeto. Soprattutto New York: la consiglierei vivamente come la città dalla quale partire.

A.T. – ecodellalocride.it