Un delitto che nella seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso fece sensazione per la crudeltà e l’efferatezza, e che rappresenta un caso di scuola come prima occasione di visibilità della ‘ndrangheta calabrese al nord, torna nelle aule di tribunale quasi 50 anni dopo. È la storia di Cristina Mazzotti, la ragazza diciottenne figlia di un imprenditore, rapita e poi uccisa dalla banda che aveva chiesto 5 miliardi delle vecchie lire alla famiglia. Un rapimento iniziato in Lombardia, ma che ha poi avuto come teatro il novarese: Cristina fu tenuta prigioniera a Castelletto Ticino e il suo corpo senza vita fu ritrovato in una discarica di rifiuti a Galliate, a pochi chilometri da Novara.

  Domani la vicenda torna davanti ai giudici della corte d’assise di Como, competente per territorio, visto che la ragazza fu portata via dalla sua casa a Eupilio, nella provincia lariana. A giudizio c’è un novarese insieme a tre calabresi.

I quattro, in concorso con altri tredici tutti condannati a suo tempo, “con apporti causali anche distinti, ma comunque convergenti e in attuazione di un comune progetto criminoso” – si legge nell’avviso di conclusione delle indagini – sequestrarono Cristina, “segregandola in una buca a Castelletto Ticino senza sufficiente areazione, senza possibilità di deambulazione, somministrandole massicce dosi di tranquillanti ed eccitanti, così cagionandone volontariamente la morte”.

Le nuove indagini iniziate nel 2008 e condotte dalla Mobile di Milano hanno portato al processo che si apre domani a Como.

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