La guerra ai narcos. Condotta dalla magistratura calabrese in cinque continenti. Una guerra che ha portato a risultati straordinari. L’ultimo broker della droga ancora in circolazione – riporta Arcangelo Badolati in un articolo oggi sulla Gazzetta del Sud – è stato arrestato a Praia Grande, nello stato di San Paolo del Brasile dalla polizia federale paulista e dai carabinieri del Ros nel luglio scorso.

È un cosentino, originario di Grimaldi, diventato uno dei più grandi esportatori di cocaina dal Sudamerica verso l’Italia e si chiama Nicola Assisi. È stato ammanettato insieme con il figlio, Patrick, 36 anni, con il quale viveva nascosto in tre meravigliosi appartamenti dotati di piscina e sorvegliati da un sistema di telecamere a circuito chiuso.

In una stanza segreta padre e figlio nascondevano milioni di dollari in contanti che gli investigatori non sono riusciti a contare ma solo a pesare: una montagna di bigliettoni verdi posti sotto sequestro. Al sessantenne “don Nicola” e al figlio sono stati sequestrati pure un chilo di cocaina, due pistole e una macchina per replicare i sigilli dei container destinati ad essere imbarcati sulle grandi navi transoceaniche.

Le due “primule” erano ricercate da quattro anni ed avevano raggiunto il Brasile passando attraverso il Portogallo e l’Argentina, usando identità fittizie. Tracce della famiglia Assisi erano state scoperte anche a Cosenza nel marzo del 2017 quando venne fermata un’utilitaria guidata da un personaggio noto alle forze dell’ordine e intestata proprio a Patrick Assisi. Ma c’è un altro personaggio al quale gli investigatori hanno dato a lungo la caccia per anni prima di scoprire che è morto. Approfondiamo.

Nel 2002 la Procura di Catanzaro, nell’ambito dell’operazione antidroga denominata “Decollo” fa bloccare una nave con 500 chili di cocaina purissima diretta nel porto di Adelaide. La mafia calabrese gestisce il traffico mondiale della “polvere bianca” e spedisce sistematicamente i suoi carichi anche ai “cugini” australiani. Che se li contendono a pistolettate. Il trasporto del carico – viene accertato – era stato preparato da Nicola Ciconte, narcotrafficante di origine vibonese ben introdotto in Oceania. L’uomo viene successivamente condannato per questi fatti in contumacia e con sentenza definitiva a 25 anni di carcere dai magistrati italiani. Ciconte, tuttavia, rimane latitante a Sidney e non viene mai estradato nel nostro Paese. Ciconte, che si sposta frequentemente per non essere individuato, è morto in Cambogia, a Phnom Penh, il 10 luglio del 2013, per una fulminante polmonite: si era rifugiato a Sihanoukville temendo che le autorità australiane potessero prima o poi cedere alle pressioni del governo italiano e rimandarlo in patria.

Roberto Pannunzi, invece, sembra un personaggio inventato da uno scrittore. Sessantotto anni, inteso anche come “l’amico” “il gozzo”, e “il signore”, è sempre stato chiamato dai “compari” della ‘ndrangheta “Bebè”. Per gli investigatori italiani e per i “mastini” della Dea statunitense è invece sempre stato “il Pablo Escobar italiano”.

Pannunzi è stato catturato a Bogotà, capitale della Colombia, nel luglio del 2013 ed estradato in Italia nel giro di pochi giorni per evitare che, una volta rinchiuso stabilmente nei penitenziari sudamericani, potesse corrompere agenti di custodia e funzionari e tagliare la corda. Il broker della droga, al momento dell’arresto, era ricercato in tutto il mondo dopo essere fuggito in maniera rocambolesca da una clinica di Roma il 15 marzo del 2010, replicando una precedente evasione compiuta il 6 luglio del 1999. In tutte e due le occasioni era stato scarcerato per motivi di salute dai magistrati di sorveglianza perché assumeva, anche attraverso una copiosa produzione di consulenze mediche, di essere affetto da gravi problemi cardiaci.

I detective che gli davano la caccia hanno invece scoperto che, nonostante i lamentati problemi di cuore, il latitante non disdegnava le frequentazioni femminili, il buon cibo e, soprattutto, le trattative per l’acquisto di ingentissime partite di cocaina. Al collo, come assicurazione sulla libertà, portava sempre una collana con un diamante di grande valore che era pronto ad offrire agli sbirri che, prima o poi, gli sarebbero saltati addosso. Quando ha tentato di farlo con gli investigatori che l’hanno scovato in Colombia nel 2013 gli è andata male: l’offerta è stata rifiutata ed è finito dritto in galera. Prima di varcare le porte del carcere federale colombiano ha fatto un ultimo tentativo offrendo, questa volta, cinque milioni di dollari in contanti agli agenti che lo scortavano: «ve li faccio avere subito se mi fate scappare». Il generale Humberto Guatibonza, responsabile del Gaula, gruppo di forze speciali del paese sudamericano, l’ha mandato a quel paese. Dopo la sua fuga dall’Italia il boss del narcotraffico era arrivato in Brasile a bordo di una nave e da lì si era spostato in Venezuela e poi in Colombia.

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Nella foto Roberto Pannunzi detto Bebè