La forza di una foto. L’impatto di una immagine. La violenza di un fotogramma. Nel nostro caso, è la storia di un bimbo siriano di cinque anni. Il suo nome è Mustafà al-Nazzal. Qui nella foto è in braccio a suo padre, l’uomo con le stampelle. Il bimbo, invece, non ha né gambe né braccia. È nato così dopo un bombardamento aereo con armi chimiche nella sua terra di origine. Oggi, grazie a questa foto, che ha fatto il giro del mondo, al-Nazzal potrà finalmente camminare e muoversi con degli arti artificiali che un ricercatore italiano sta progettando e realizzando per lui. La forza di una foto, in questo caso, ha salvato la vita di Mustafà al-Nazzal, e permetterà a questo bimbo siriano di immaginare un futuro diverso da quello che avrebbe avuto se fosse rimasto in Siria e nessuno avesse conosciuto la sua storia.

Ma partiamo dall’inizio di questa storia. Il bimbo siriano è arrivato nei giorni scorsi all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino con un volo diretto proveniente da Istanbul. Con lui arrivano in Italia suo padre Munzer El Mezhel, la mamma Zeynep e le due sorelline più grandi. Ma la sua storia ha già fatto il giro del mondo, per via di una foto il cui titolo è “Hardship of life”, “La difficoltà della vita”, e con cui un fotografo turco di nome Mehmet Aslan ha vinto lo scorso mese di ottobre il “Siena International Photo Awards”, prestigiosissimo concorso fotografico cui partecipano ogni anno artisti di ben 163 Paesi diversi. La foto si commenta da sola. Mostra in primo piano un padre, profugo siriano in Turchia, con una stampella al posto di una gamba, che tiene in braccio con le braccia protese verso il cielo il figlio, a sua volta privo di braccia e di gambe. Impressionante, forte, commovente, per certi versa “violenta”, ma oggi questa foto ha permesso al piccolo Mustafà e suo padre di tornare a vivere, e soprattutto a sperare in una vita futura completamente diversa.

Il fotoreporter Mehmet Aslan

«Ho scattato la mia foto ad aprile di quest’anno nella provincia turca dell’Hatay, – racconta Mehmet Aslan all’agenzia Agi – al confine siriano in cui vivo e dove hanno trovato rifugio tantissimi rifugiati siriani. Il giorno dello scatto una equipe medica era venuta nella zona per visitare il piccolo Mustafa ed è stato un momento di gioia per tutti. Il premio è assolutamente in secondo piano, quello che ho sempre voluto è che le mie foto servissero a sensibilizzare il mondo civile sulle vittime della guerra, in particolare civili e innocenti, che spesso finiscono dimenticati, ma i cui drammi continuano anche dopo la fine dei conflitti. Ora Mustafa avrà una vita migliore e questo mi rende felice più di qualsiasi premio».
Ai colleghi dell’agenzia Agi il fotoreporter siriano racconta i dettagli di quel giorno in cui gli capitò per caso di fare questa foto.
«Siamo in un’epoca in cui la differenza tra verità e fake news si è purtroppo ridotta, foto, video e notizie sono fatte più per stupire che per comunicare. Questa foto ha vinto perché, purtroppo, è tremendamente vera, reale e colpisce. Padre e figlio sono l’immagine delle conseguenze della guerra, chiunque la guardi si rende conto di ciò che comporta un conflitto, di chi realmente ne paga il prezzo. Molto spesso il rischio di dimenticarcene è reale, anche per chi come me vive a pochi chilometri da un’area di conflitto. Il padre di Mustafà – dice ancora il fotoreporter – si chiama Munzer El Mezhel.

Nel 2006 si trovava nel mercato di Idlib con la moglie incinta, quando una bomba scagliata da un aereo del regime di Damasco è esplosa poco lontano. Lui ha perso la gamba, la moglie si è salvata e anche il bambino. A causa dei gas chimici usati nell’attacco, però, Mustafa è nato privo di tutti e quattro gli arti. La famiglia dopo l’esplosione è giunta in ambulanza in Turchia, dove ha ricevuto le prime cure, ma non sono bastate».
Ecco allora il ruolo di un premio prestigioso come quello di Siena, che ogni anno porta in Italia il fior fiore dei maestri della fotografia di tutto il mondo: la giuria del “Siena International Photo Awards” davanti alla foto di Mustafà in braccio a suo padre non ha esitato a riconoscere la foto come un vero e proprio manifesto-denuncia della guerra. Il dopo è semplicissimo, quasi banale. La foto fa il giro del mondo, e quando Mehmet Aslan chiede aiuto per questa povera famiglia siriana scatta una catena di solidarietà senza pari. Ma gli italiani sono brava gente, sono fatti così, hanno tanto cuore e tanto senso dell’accoglienza. All’Arcidiocesi di Siena-Colle di Val d’Elasa Montalcino arrivano le prime donazioni in denaro, i primi cento mila euro, ma una mattina arriva soprattutto la telefonata che “allunga la vita” sia a Mustafà che a suo padre.

Il prof. Gregorio Teti

Dall’altra parte del filo si materializza la voce meridionale di uno scienziato che risponde al nome di Gregorio Teti.
Cinquant’anni, nato e cresciuto a Catanzaro città, dove ancora vive la sua famiglia, padre madre e due sorelle gemelle, studente modello del liceo scientifico fino a diciotto anni, poi di corsa all’Università di Bologna dove si laurea in ingegneria meccanica. Prende la sua seconda laurea, diventa professore universitario, e viene oggi considerato ricercatore e massimo esperto di protesi elettroniche nel mondo. Per conto di Inail il professor Gregorio Teti dirige oggi l’area tecnica di uno dei centri di maggiore eccellenza esistenti in Europa, il Centro Protesi di Vigorso di Budrio, a Bologna, e quello nato poi anni dopo in Calabria a Lamezia Terme.
Un medico? Molto più di un medico. Un ingegnere meccanico? Molto più di un ingegnere meccanico. Un esperto di intelligenza artificiale? Molto più di un esperto di AI. Il curriculum che chiunque può trovare sul sito ufficiale dell’Università di Bologna è tale da considerare Gregorio Teti una delle eccellenze italiane nel mondo in tema di assistenza a malati gravi come il piccolo Mustafà e suo padre. Lui non ce lo dice, ma dal centro che lui dirige c’è passato anche il grande Alex Zanardi dopo una delle tante tragedie vissute sul proprio corpo.

– Professor Teti, quanto tempo starà da voi Mustafà?
«Difficile dirlo in questo momento. Dovremo vederlo e immaginare un percorso condiviso e realizzabile in ogni sua fase diversa. Non è facile raggiungere in casi come il suo e in tempi veloci quella che noi tecnici chiamiamo la maturità scheletrica. Il bambino, questa è l’unica certezza che le posso dare, sarà seguito da noi, presso il Centro Protesi Inail, fino a quando non avrà finalmente conquistato e raggiunto questa maturità scheletrica di cui le parlo. Dalle notizie e informazioni in mio possesso, però, Mustafà e la sua famiglia rimarranno in Italia per sempre o per un lungo periodi di tempio che consenta le cure future necessarie al piccolo, si stabilizzeranno qui, perché hanno ottenuto in questo senso il visto necessario da parte delle autorità consolari italiane».

– Professore, parliamo naturalmente di un centro di elevatissima eccellenza. Questo non potrà che tornare utile al bambino, non crede?
«Le posso solo dire questo, che il bambino crescendo vedrà e toccherà con mano cose che noi non abbiamo mai visto prima, e farà cose che nessuno di noi probabilmente ha mai ancora visto fare, ha dalla sua la tenera età che gli consentirà di avvantaggiarsi degli sviluppi della ricerca».
– La ricerca sta facendo, insomma, passi da gigante…
«Che l’intelligenza artificiale gli permetterà di salire su un’auto e di avviarla e controllarla con un semplice comando vocale, ad esempio mediante la guida autonoma. Così come potrà scrivere una lettera o una qualunque cosa al computer dettando tutto quello che gli verrà per la mente, sarà poi il pc con i suoi programmi avanzati a decodificare il tutto e trasformare la sua voce in scrittura. Mi creda, ma si aprono per tutti noi orizzonti inimmaginabili prima d’ora».

– È il primo caso del genere che le capita?
«Da noi arriva davvero di tutto. Ogni caso è un unicum. È la persona che fa la differenza. Man mano che andremo avanti sarà il bambino a fare un bilancio delle sue potenzialità e delle sue attività motorie, e sarà lui a decidere se averli o no questi ausili tecnici per la sua vita futura».
– Che percentuali di successo immaginate o sperate di avere con il bambino?

«Non facciamo mai questi calcoli. Noi pensiamo a ridare ai nostri pazienti la funzionalità che hanno persa, e cerchiamo di farlo al top delle nostre possibilità e delle nostro potenzialità. Mai chiedersi come andrà a finire? Importante è incominciare a lavorare sul bambino, e preoccuparsi soltanto del suo futuro e della sua vita di uomo che sta per crescere in condizioni completamente diverse da quelle in cui è arrivato da noi».
– Professore Teti, posso chiederle come affronterete questo caso?

«Ci sono varie ipotesi di lavoro al momento, ma nulla di definito e di certo. Non abbiamo ancora visto il bambino, lo vedremo subito dopo febbraio, ci sono problemi di quarantena per via della pandemia in corso, tempi d’attesa da rispettare e solo dopo aver visto il bambino potremo stabilire cosa sarà meglio e più utile fare per lui».
– Ma lei assisterà anche il papa del bimbo?
«Con il papà dovrebbe essere un’operazione più semplice, nel senso che bisognerà affrontare e risolvere il problema di un trauma e di una amputazione subita, quella della gamba. Lavoreremo su di lui, quindi, per restituirgli le condizioni migliori per restituirgli la propria autonomia con una deambulazione libera. Nel caso di un bambino l’approccio è invece completamente diverso».
– In che senso?
«Vede, mentre il padre ha certamente memoria di cosa era prima dell’amputazione e di quelle che erano le sue facoltà motorie prima dell’incidente subito, il bambino invece non ha nessuna memoria. Dovremo, quindi, preparalo sia sotto il profilo psicologico sia sotto quello più specificatamente materiale. Il bimbo vive oggi la sua condizione in maniera del tutto naturale, ho analizzato dei filmati che lo fanno vedere mentre si rotola e gioca da solo sul divano di casa come se nulla gli mancasse o gli fosse mai mancato. Questo significa che dovremo costruire in lui non solo gli arti che non ha, ma la memoria degli arti che gli manca, e abituarlo a una nuova dimensione e a una vita completamente nuova per lui».

– Prevede tempi ben definiti?

«Assolutamente no. Prevediamo una serie di step, questo sì certamente, e di fasi di adattamento a cui il bambino andrà predisposto e preparato. Man mano che il bambino andrà poi avanti, crescendo, dovremo riadattare le protesi e i sistemi che andremo a realizzare per lui. Certamente partiremo con delle protesi semplicissime per limitare l’impatto psicologico con il bambino, protesi leggerissime soprattutto. Vediamo prima di tutto come il bambino reagirà. Poi avremo tutto il tempo per immaginare e progettare cosa fare in futuro per lui negli step successivi».
La forza di una foto dunque. La “violenza” di un fotogramma…
«Sono felice – afferma, dal canto suo, Mehmet Aslan – che la mia foto abbia mosso il mondo. Purtroppo in Turchia non sono reperibili le necessarie protesi elettroniche, troppo costose, e disponibili solo in Europa. Ora aspettiamo con ansia notizie dall’Italia perché dal mio punto di vista questo premio diventa davvero importante se permetterà di migliorare la vita di Mustafa che è nella foto, ma anche di tantissimi altri bambini vittime innocenti della guerra rimasti ancora in Siria».

(giornalistitalia.it)

Pino Nano

sotto Mustafà al-Nazzal con il padre Munzer El Mezhel nella foto di Mehmet Aslan