La cosca Mazzaferro esiste ed è attualmente operativa. Non ammettono repliche i giudici della Corte d’Appello, che hanno smontato la tesi più volte prospettata dalle difese degli imputati del processo “Circolo Formato”. Gli avvocati, in aula, hanno negato che quella famiglia, a Marina di Gioiosa, potesse davvero essere considerata un clan di ‘ndrangheta. Quanto meno nel periodo di tempo a cui le accuse facevano riferimento. Ma per i togati reggini non è così. E danno ragione ai colleghi di Locri, che nel primo grado di giudizio aveva desunto l’esistenza della cosca da una sentenza definitiva del 1998, che ha riconosciuto a capo del clan il defunto Vincenzo Mazzaferro, classe 1942.

Convinzione, questa, fondata anche sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Vittorio Ierinò, Calogero Marcianò, Salvatore Maimone e Leonardo Messina. Poco peso avrebbe, dunque, l’assoluzione ottenuta in quel caso da Ernesto Mazzaferro, coinvolto poi nel 2011 nell’operazione “Circolo Formato”.

«Come evidenziato dal giudice di prime cure – si legge nelle motivazioni – tale pronuncia concerne esclusivamente Ernesto Mazzaferro, assolto per non aver commesso il fatto, non essendo stati rinvenuti dal giudice di rinvio idonei elementi di riscontro alle accuse mosse dai collaboratori di giustizia nei suoi confronti; la sentenza, pertanto, presuppone l’esistenza della cosca Mazzaferro e non inficia, pertanto, l’accertamento definitivamente compiuto circa l’esistenza del sodalizio mafioso».

A riprova dell’esistenza della cosca i giudici citano la riunione a circolo formato – che ha dato il nome all’operazione – tenutasi nel fondo paterno di Rocco Mazzaferro il 10 novembre 2008, nel corso della quale si stava procedendo al battesimo di alcuni nuovi affiliati, «oggetto di diretta percezione da parte degli operanti», e la dettagliata descrizione dell’organigramma della cosca fornita dallo stesso Rocco Mazzaferro ai propri interlocutori nel corso di una conversazione il 19 febbraio 2009. Elementi, questi, che «dimostrano come in tale periodo (anni 2007/2009) la cosca si era ricostituita, sotto la direzione dello stesso Mazzaferro Rocco, e si contrapponeva alla famiglia rivale degli Aquino, che si era sino ad allora imposta nel territorio di riferimento».

Una conclusione, aggiungono i giudici, avvalorata dalle plurime conversazioni intercettate in cui alcuni degli affiliati discutono esplicitamente degli equilibri e delle dinamiche interne alla famiglia. Tra quelle meritevoli di «particolare menzione», quella del 19 luglio 2008, quando Luca Mazzaferro, discutendo con i fratelli Domenico e Fabio Agostino e Domenico Tarzia, contesta la leadership di Rocco Mazzaferro, affermando che «non vale niente, che è un pisciatore ed un quaquaraquà e che se non era per il compare… incomprensibile… Mazzaferro lo mandavo a fare in culo». Modelli erano, invece, gli zii defunti, Vincenzo e Giuseppe Mazzaferro: «io sai a chi conosco, a Vice Mazzaferro e a Peppe Mazzaferro che sono morti, che erano uomini, a questi altri carabinieri non conosco nessuno». Aggiungendo che «neanche mio padre (Ernesto, nda) vale niente».

La cosca, inoltre, sarebbe anche numerosa, composta da «quasi ottanta» persone, come riferisce Rocco Mazzaferro sempre il 19 febbraio 2009, in possesso di doti di ‘ndrangheta (tra i quali cinque o sei persone investite della dote di trequartino), strutturata con precisa ripartizione delle cariche al suo interno, che ha a disposizione armi e che aumenta la propria consistenza con nuove affiliazioni. Ma non solo. Il clan si relaziona non solo con l’altra cosca di Marina di Gioiosa, gli Aquino, con i quali si scontra durante le elezioni, ma anche con altre cosche di ‘ndrangheta. Tant’è che Rocco Mazzaferro, sempre nella famosa conversazione del 19 febbraio 2009, afferma di essersi incontrato, in occasione di un matrimonio, con Rocco Morabito e Totò Ursino. Tramite quest’ultimo, Mazzaferro si era rivolto agli Aquino per invitarli a riconoscere il riacquistato peso della famiglia rivale, anche in considerazione delle nuove affiliazioni.

«Quanto emerso, in esito all’istruttoria dibattimentale, in ordine alla vicenda elettorale – si legge ancora – avvalora inequivocabilmente la “mafiosità” della cosca facente capo ai Mazzaferro». Le elezioni del 2008 non furono mera competizione politica tra contrapposti schieramenti, «quanto piuttosto una vera e propria lotta, per la conquista della cosa pubblica, tra le due fazioni contrapposte dei Mazzaferro – che alla fine hanno prevalso – e degli Aquino per l’affermazione sul territorio».

Rocco Mazzaferro avrebbe di fatto gestito ogni fase delle elezioni: la scelta dei candidati e la formazione della lista, la conclusione degli accordi prodromici alla presentazione della lista, la campagna elettorale; quindi, dopo la vittoria alle elezioni, la formazione della squadra di governo e la scelta degli assessori. I Mazzaferro miravano a condizionare e “sfruttare”, attraverso il metodo mafioso, una tornata elettorale, per «penetrare nelle leve di governo amministrativo del Comune; così da orientare l’attività in senso favorevole all’associazione nel suo complesso, a prescindere dalle “utilità” che i singoli associati ne avrebbero potuto trarre (sul piano politico, economico, di controllo del territorio e simili)». I Mazzaferro avevano quindi inserito nell’amministrazione soggetti che erano «diretta espressione» del clan, per competere, finalmente, con lo strapotere economico degli Aquino.

«L’intraneità al sodalizio di Femia Rocco – candidato sindaco sostenuto dalla lista espressione della famiglia Mazzaferro – è ampiamente provata dal ruolo da lui svolto in occasione della consultazione elettorale del 2008».

Non hanno dubbi i giudici della corte d’Appello di Reggio Calabria, che a luglio dello scorso anno hanno confermato la condanna a 10 anni di carcere inflitta all’ex sindaco di Marina di Gioiosa Ionica, imputato nel processo “Circolo Formato”, che nel 2011 ha smantellato l’amministrazione comunale di Gioiosa portando in carcere quasi l’intera giunta.

Una condanna che, però, nelle scorse settimane è stata messa in discussione dalla stessa corte d’appello reggina, che su istanza dell’avvocato Eugenio Minniti ha disposto la scarcerazione, dopo 5 anni dietro le sbarre, dell’ex primo cittadino della città del sorriso.

La decisione della Cassazione, che ha annullato senza rinvio, lo scorso 27 aprile, la condanna inflitta a Francesco Marrapodi, ex assessore del governo Femia, giudicato in abbreviato, «soggetto con posizione processuale analoga» a quella dell’ex sindaco, ha convinto i giudici sulla non «persistenza delle esigenze cautelari». Per i giudici che hanno ribadito la sua condanna, però, non ci sono dubbi: il politico era al soldo della cosca Mazzaferro. Di più: di quella cosca lui avrebbe fatto parte, rendendosi strumento del tentativo del clan di risalire la china e recuperare punti sulla cosca rivale, quella degli Aquino.

«È emerso – si legge nelle motivazioni della sentenza, depositate mercoledì – come Femia Rocco si sia relazionato in maniera sistematica con il “capo società” Mazzaferro Rocco – autentico regista dell’operazione che avrebbe poi condotto alla vittoria delle elezioni, ritenuta dalla cosca fondamentale al fine di porre termine alla supremazia della contrapposta famiglia degli Aquino – e con il suo “braccio destro” Frascà Salvatore, tanto nella fase propedeutica della predisposizione della lista dei candidati, quanto in quella, successiva alla vittoria delle elezioni, di formazione della giunta».

Rocco Mazzaferro, sottolineano i giudici, aveva avviato un’opera di persuasione per convincere Giovanni Antonio Femia a sostenere quello che poi sarebbe diventato il sindaco della città; lo stesso «capo società» avrebbe più volte contattato Rocco Femia per informarsi sulla situazione e di fronte alla sua perplessità sul comportamento di alcuni in relazione al rispetto degli accordi, lo avrebbe tranquillizzato, annunciando il suo intervento in prima persona. «Non hanno capito niente – veniva intercettato -, domani gli faccio capire io, non ti preoccupare».

A disporre la lista dei candidati, affermano i giudici d’appello, «dovevano essere Rocco Femia e Giovanni Femia, solo perché così aveva deciso Mazzaferro Rocco; costui, trovandosi a Milano, per assicurarsi che nessun altro aspirante si ingerisse nella questione, dava mandato al cognato Frascà Salvatore di tenere la situazione sotto controllo». Femia si sarebbe rivolto a Mazzaferro per tenere a bada i dissidi interni alla coalizione che avrebbe dovuto sostenerlo, innescando una serie di contatti telefonici e incontri per “convincere” Giovanni Femia a rispettare gli accordi presi. Ma una volta vinte le elezioni i contatti tra il sindaco e il boss non si interruppero.

Femia, scrivono i giudici, «continua a relazionarsi con il capo cosca Mazzaferro Rocco, anche nella fase successiva alle elezioni, chiedendo un suo incisivo intervento per assicurare la formazione della giunta e, segnatamente, per risolvere il problema legato alle pretese di Mazzaferro Domenico, inteso “u cacarizzu” – si legge nelle carte -, il quale, spalleggiato da altri consiglieri, pretendeva un posto di assessore, cosa che avrebbe impedito il rispetto degli accordi preelettorali e comportato l’esclusione dalla giunta di Romeo Rocco (ex sindaco molto ben voluto dalla cittadinanza, nda). Il problema era complicato dal fatto che il citato “cacarizzu” era legato da vincoli di affinità di fatto ad altri membri della cosca, Mazzaferro Luca (convivente della di lui sorella), e conseguentemente a Mazzaferro Ernesto (padre di Luca)».

Rocco Mazzaferro aveva dunque rassicurato Femia si un suo intervento sul “cacarizzo”. L’idea del sindaco era quella di distribuire gli assessorati suddividendo il mandato in due parti, ma la scelta a Domenico Mazzaferro non piaceva. Da qui gli inquirenti hanno registrato tutta una serie di conversazioni finalizzate alla soluzione del problema, conversazioni che, per la Corte, avvalorano ulteriormente l’ipotesi accusatoria, secondo la quale Femia «è soggetto intraneo alla cosca e dalla stessa designato quale candidato sindaco. Dalle stesse – si legge ancora – emergono infatti non solo i consolidati rapporti del Femia con Mazzaferro Rocco, già accertati, ma altresì che anche altri esponenti della famiglia Mazzaferro, ed in particolare Mazzaferro Luca, si sentivano legittimati a rivolgersi, in prima persona, al sindaco per sollecitarlo ad assicurare un posto in giunta ai loro protetti. Ed infatti Femia Rocco chiedeva al capo società Rocco Mazzaferro un incisivo intervento sui propri congiunti, per convincerli ad accettare la soluzione proposta ed ad attendere due anni prima di entrare in giunta».

Femia, scrivono ancora i giudici, la cui affiliazione era nota anche agli altri membri del clan «si è messo a disposizione della cosca, consentendo a Mazzaferro Rocco di gestire in prima persona le elezioni amministrative del 2008 e si conseguire l’agognata vittoria, vista dalla cosca quale strumento per affermarsi sul territorio di riferimento e porre fine alla supremazia della cosca avversaria degli Aquino». La sua candidatura e la formazione della giunta, dunque, non rientrerebbero nelle normali dinamiche politiche. E non può essere considerato normale, aggiungono, che il capo di una cosca «si ingerisca in maniera penetrante nelle vicende di una coalizione elettorale, relazionandosi sistematicamente con il candidato sindaco, né che a questi, mettendolo in palese difficoltà, si rivolgano altri autorevoli membri del sodalizio (Mazzaferro Luca), chiedendo l’ingresso in giunta dei propri protetti». Né può considerarsi verosimile che Femia non conoscesse la storia di Rocco Mazzaferro. Anzi, per i giudici Femia era pienamente consapevole dei rischi connessi al fatto che i suoi rapporti con il «capo cosca» venissero alla luce, tant’è che il politico, per contattarlo, utilizzava il telefono del cognato del boss, Frascà, chiedendo più volte se l’apparecchio fosse o meno «sicuro».

Simona Musco tratta da www.zoomsud.it

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