Oltre 90 chilometri di coste, un mare pulito e pescoso, un patrimonio montano variegato, un clima unico e propizio: la natura ha donato alla nostra provincia uno degli angoli più belli del mondo.
Incastonati tra l’Aspromonte, rigoglioso nella sua natura incontaminata, ed il mitico mare Jonio, dal quale vennero i Greci, portatori della cultura, dell’arte e della grandezza dell’Ellade, si trovano i 42 comuni che compongono il territorio della Locride, appartenente alla Regione che Corrado Alvaro definì la “regione più misteriosa e inesplorata d’Italia”.
La Locride è accarezzata da una larga e bianca spiaggia che si estende lungo gli oltre 90 km di quella che viene comunemente chiamata la Costa dei Gelsomini. La pianta di gelsomino, diffusa in tutta la provincia reggina ma tipica soprattutto del territorio della Locride, dà il nome ad una delle coste più belle d’Italia, unica per continuità e bellezza. Ma la Locride non è solo mare cristallino, spiagge caraibiche e alte scogliere, infatti grazie alla presenza di uno spartiacque naturale tra Jonio e Tirreno, alcuni dei comuni che compongono l’area ricadono proprio all’interno del Parco nazionale dell’Aspromonte, parliamo di Africo, Antonimina, Bruzzano Zeffirio, Canolo, Careri, Caulonia, Ciminà, Gerace, Mammola, Platì, Sant’Agata del Bianco, Samo e San Luca. Questi borghi, che abbondano di storia e tradizione, sono la cornice di un paesaggio ricco di contrasti e, senza dubbio, unico nel suo genere.
Il territorio della Locride si caratterizza anche per le sue tradizioni e per le sue specialità gastronomiche: un territorio così variegato non può che regalare prodotti tipici di altissima qualità, come salumi, olio e formaggi. Per conoscere le usanze di questa terra e scoprire dove assaporare i prodotti tipici, visita le sezioni dedicate all’interno della pagina cosa fare.
La Costa dei Gelsomini è anche celebre per le produzioni artigianali tra cui i tessuti realizzati a mano con i telai e le terrecotte di Gerace, la lavorazione del legno e delle pregiate pipe in radica di Serra San Bruno.
“Il segno che caratterizza l’uomo di Sant’Agata è l’arte. Penso un gene che emerge (e senza interruzioni) dal fondo greco de la nostra cultura. E da la confluenza di influssi successivi che vanno dal Rinascimento a l’Illuminismo e dal Romanticismo a le ipotesi di cultura sociale del nostro tempo” (Giuseppe Melina);
“A Sant’Agata la poesia è di casa, come il sole, le mosche e l’ulivo. Si tratta di una vena spontanea..” (Giuseppe Josca).
“Testa? Croce? Testa, Sant’Agata! Giù, perciò! Ed eccoci penetrare in un nuovo scenario: sommità e linee al di là di altezze crestose e abbaglianti bianche fiumare, tratti di colline al mare scintillante e secchi bagliori”. (E. Lear)
LA STORIA DI SANT’AGATA DEL BIANCO (a cura di Domenico Stranieri)
La fondazione di Sant’Agata del Bianco è legata a suggestive leggende medievali. Dalla storia della regina normanna Adelasia, residente a Palermo, che chiamò S. Alasia il casato prima che venisse denominato Sant’Agata, fino ad arrivare al terremoto del 1349, quando (secondo Vincenzo Tedesco, storico e arciprete di Sant’Agata dal 1831 al 1877) “la gente più agiata e colta” si trasferì nel giardino di Campolaco (già luogo “di delizie” del cosiddetto Catapano, un signore bizantino) “lasciando il primitivo nome di Samo e chiamandosi S.Alasia” (sito che forse faceva parte di un imprecisato sub-feudo che apparteneva ai baroni di Pisana). Pare, inoltre, che in questo luogo già esistesse un Castello dei baroni Musco e Ambato (periodo normanno).
Nel 1412 è attestata come Sanctæ Agathae e successivamente sarà “Sant’Agata di Precacore”.
Nel 1488 si ha notizia di un tale, Andrea di Sant’Agata, abate del monastero di San Nicola di Butramo.
Di sicuro, dopo che fu sotto i Ruffo (nel Trecento e fino alla seconda metà del Quattrocento) e dei Centalles (dal 1462), durante la signoria dei Marullo Sant’Agata aveva già il suo nome.
Dal 1496 al 1554, difatti, il casato fu infeudato ai Marullo di Condoianni (prima Tommaso e poi Giovanni) e, successivamente, alla famiglia di banchieri genovesi degli Squarciafico (fino al 1572). Nel XVI secolo Sant’Agata visse uno dei momenti più floridi della sua storia, poiché gli industrianti genovesi sfruttavano legnami e resine della montagna Ferraina. Dopo Giulio Cesare Squarciafico, il feudo passò a Francesco Romano (1572 -1592) per ritornare, per un breve periodo, ai Marullo (fino al 1588). Nel 1589 inizia l’era dei Tranfo di Tropea fino al 1743. Dei Tranfo si raccontano, ancora oggi, angherie e soprusi come lo jus di prima notte, anche se pare che un Tranfo abbia aderito alla rivolta di Tommaso Campanella.
Da una relazione del 1641, del vescovo di Gerace Lorenzo Tramallo, veniamo a conoscenza che Sant’Agata aveva una chiesto parrocchiale, due chiese non parrocchiali, due chiese dirute di libera collazione, una chiesa di giuspatronato e una chiesa eretta a devozione; vi erano, poi, tre confraternite (del Santissimo Sacramento, del Santissimo Rosario e di San Nicola). Nel 1655, la relazione della visita ad limina del vescovo Vincenzo Vincentino parla di una popolazione di 1485 abitanti (di cui 1055 si comunicavano).
Il 3 marzo 1697, nasce a Sant’Agata Antonio Tommaso Barbaro, sacerdote e letterato di fama nazionale che visse prima a Napoli e poi a Venezia.
Nel 1742, il parroco Leonardo Alafaci attesta, nel Catasto Onciario di Sant’Agata (volume 6127), la presenza di soli 207 abitanti.
Dal 1743 fino all’eversione della feudalità, i signori di Sant’Agata saranno quelli della famiglia (De) Franco (Domenico De Franco acquistò le terre di Precacore e Sant’Agata il 14 gennaio 1743 per 55.200 ducati). Il 13 novembre 1705, nasce a Sant’Agata il pittore ed erudito D. Nicola Franzè, che dipinse per la chiesa di Sant’Agata il quadro di Santa Barbara e Veneranda.
Nel 1744, il Tedesco afferma che “respirò in questa terra le prima auree di vita” Francesco Antonio Grillo, figlio di Domenico Grillo e Agata Marrapodi. Letterato e ministro provinciale dell’Ordine dei frati minori, Grillo fu vescovo di Martirano e Cassano (CS).
Nel 1765, alcuni abitanti di Precacore e di Sant’Agata si recarono dal notaio Lorenzo Pisani (busta 196, atto del 03/03/1765) per dichiarare che le due Universitas “avevano un territorio autonomo l’una dall’altra diviso dal vallone Santa Vennera o Veneranda, in maniera che ogni Universitas avesse autonomia in materia civile, giurisdizionale e fiscale, oltre che ecclesiastica” (Domenico Romeo, Precacore e Sant’Agata in Calabria Ultra nell’apprezzo del 1741).
Il terremoto del 1783 provocò gravi danni al territorio e alle case dei 436 abitanti di Sant’Agata; la chiesa matrice venne distrutta e la prima scossa del 5 febbraio 1783 registrò il crollo di una trave che fu retta dal braccio della statua della Santa che, così, salvò la vita dei fedeli.
Con l’ordinamento amministrativo disposto dal generale francese Championnet nel 1799 Sant’Agata fu compresa nel cantone reggino. All’inizio dell’Ottocento, fu inclusa dapprima tra le università del cosiddetto governo di Ardore e poi tra i comuni del circondario di Bianco.
Nel 1806, il capobanda borbonico Giuseppe Monteleone di Serra San Bruno, intento ad infiammare la guerriglia antifrancese in Aspromonte, assassina presso il Convento di C.da Crocefisso il primo sindaco democratico di Sant’Agata del Bianco: Giuseppe Melina (massaro e mastro di seta).
Nel 1847 il giovane Rocco Verduci (uno dei 5 martiri di Gerace) si riuniva con i suoi seguaci santagatesi (Domenico Pizzinga, Giovanni Borgia, Giuseppe Politanò, Francesco Strati, Domenico De Luca, Ferdinando Medici, Gaetano Vizzari) nel Palazzo Borgia di Sant’Agata per dare avvio alla rivoluzione del distretto di Gerace.
Il 6 agosto del 1847 si trovava a Sant’Agata il viaggiatore inglese Edward Lear, il quale fu ospitato dalla famiglia Franco e disegnò un paesaggio santagatese con lo sfondo del palazzo baronale a due piani e della Chiesa di San Nicola (prima semplice cappella, le cui campane portavano la data, in numeri romani, 1503, oggi Chiesa di Sant’Agata V.M.).
Annesso al Regno d’Italia, al termine del dominio borbonico (laddove si registra a Sant’Agata, il 14 settembre del 1861, la presenza del generale José Borjés), il paese partecipò attivamente alle lotte contadine per l’occupazione delle terre.
Dalla fine dell’800 fino alla prima metà del ‘900, le maestranze di muratori e artigiani santagatesi erano rinomate e operavano anche fuori dal comprensorio.
Nel 1928 fu unita a Samo, da cui si staccò nel 1946 (con D.L.L. n. 904 del 22 dicembre 1945 che stabiliva il ripristino delle precedenti unità amministrative) recuperando l’autonomia.
Nel 1943 Sant’Agata viene considerata centro di cultura sociale avanzato, soprattutto grazie all’inclinazione umanistica di molte figure che vivevano in paese (basti pensare che la biblioteca della famiglia Mesiti conteneva tutte le grandi opere del ‘700, compresa l’Enciclopedia).
Nel 1900, la storia di Sant’Agata, dagli anni ’50 agli anni ’70, è mirabilmente narrata dallo scrittore santagatese Saverio Strati (nato a Sant’Agata nel 1924 e vincitore del premio Campiello nel 1977).
Stemma:
Lo stemma del Comune mostra la patrona con le tenaglie, simbolo del suo martirio, e lo scudo è posto (“accollato”) nel petto di una grande aquila al naturale, simbolo della dinastia sveva, poi aragonese, del Regno di Sicilia e riferimento alla posizione su un alto sperone dal quale si domina un ampio tratto della costa jonica, da Capo Spartivento a Punta Stilo.
Da notare che anche lo stemma dei De Franco, ultimi feudatari di Sant’Agata, era accollato all’aquila.
L’emblema (ufficializzato insieme al gonfalone con D.P.R. 15 maggio 1963) si blasona: “D’azzurro, all’effigie di Sant’Agata, vestita di cremisi, aureolata d’oro, tenente con la sinistra un ramo verde di palma e con la destra una tenaglia. Lo scudo è accollato ad un’aquila al naturale coronata d’oro e sormontata dalla scritta in caratteri di nero maiuscoli: ATA DIVA. Ornamenti esteriori da Comune.” (l’ATA presente nel decreto ufficiale è una probabile contrazione del nome AGATA che viene riportato nello stemma).
LUOGHI D’INTERESSE
LA CHIESA DI SANT’AGATA V.M. (anticamente Chiesa di San Nicola, probabilmente è stata eretta nel XVI sec.)
PALAZZO BARONALE: Castello della famiglia Tranfo, diventa palazzo con la famiglia baronale dei Franco
LA “PIETRA” DI SANT’AGATA (ovvero la roccia dove, in epoca remota, la Santa è apparsa ad un pastore)
LA MONTAGNA (Territorio del Parco Nazionale dell’Aspromonte)
LA VIA DEI PALMENTI SCAVATI NELLA ROCCIA ( greco-romani, bizantini, armeni)
IL MUSEO DEGLI ARTISTI SANTAGATESI (dove sono conservate varie opere di artisti come Fàbon, Alba Dieni, Antonio Scarfone, Vincenzo Baldissarro, Antonio Zappia, Vincenzo Scarfone e tanti altri)
LA VIA DELLE PORTE PINTE (Porte dipinte con motivi ispirati ai libri dello scrittore Saverio Strati, nato a Sant’Agata del Bianco nel 1924)
LA CASA DELLO SCRITTORE SAVERIO STRATI (Premio Campiello nel 1977 con il romanzo “Il Selvaggio di Santa Venere”)
LA PIAZZETTA DI TIBI E TASCIA (dove è ambientato il romanzo più poetico di Saverio Strati: “Tibi e Tascia”)
IL BORGO ED I MURALES di Andrea Sposari
IL MUSEO DELLA COSE PERDUTE di Antonio Scarfone (nel Borgo Antico di Sant’Agata)
IL PALAZZO BORGIA, dove Rocco Verduci (il capo militare dei 5 Martiri di Gerace) si riuniva con i suoi amici di Sant’Agata per organizzare l’insurrezione del Distretto di Gerace del 1847
LA BOTTEGA DEL MAESTRO LIUTAIO ANTONIO SALLUSTIO
LO SCHICCIO (Piccola cascata molto suggestiva, riprodotta in varie opere del pittore Fàbon)
Personaggi illustri
Alba Dieni
Alba Dieni nasce a Sant’Agata del Bianco l’11 marzo 1941. Emigra con la famiglia a Genova, dove vive per oltre 20 anni. In questo periodo frequenta l’Accademia Ligure delle Belle Arti. Dopo l’esperienza genovese, all’età di 30 anni, ritorna al paese natio, dove l’artista, che si è sempre distinta per la sua riservatezza, è apprezzata anche dai giovani. Sorprendente pure come scultrice, ha ricevuto, negli anni, vari riconoscimenti tra i quali: il 1° premio “Costa Jonica” (1971), 1° premio Corrado Alvaro (1978), 1° premio “Castelli d’oro” (1981), 1° premio Rocca di Neto (1982), “Tetradramma d’oro” Reggio Calabria, (1985).
Figlia di Giuseppe Dieni, scrittore, poeta, autore di “farse” ma soprattutto “pioniere” attento del recupero della “memoria storica”, Alba ha fatto dell’arte il suo modo di essere.
Nel 1986, scrive di lei il poeta e saggista Giuseppe Melina:” la pittura di Alba mi turba. La sua presenza è quasi un evento esistenziale.” E poi ancora, riferendosi alla scelta della pittrice di raffigurare la cultura contadina quale antitesi (una provocazione mentale), all’uomo della cultura industriale : “il concetto più avanzato di cultura si fonda sull’affermazione dell’autenticità di ogni popolo. E’ questo il momento più accorato del lavoro di Alba. E il più insistito. Ma perché la perdita dell’autentico porta all’estinzione dell’identità. Inevitabile. Per cui una popolazione può venire assorbita e massificata senza lasciare traccia”. E’ singolare, in tal senso, il fatto che Alba Dieni muoia lo stesso giorno di Steve Jobs (05 ottobre 2011), genio della Apple ma soprattutto grande industriale. Da un lato l’americano proiettato verso il futuro, dall’altro la pittrice terrorizzata dal nucleare e dalle imposizioni dell’uomo sul futuro. Forse ha ragione Beppe Severgnini quando dice : “l’America è piena di personaggi, sceneggiature e coreografie. La differenza l’ hanno fatta i prodotti”.
Invece con la sua pittura, con la sua tecnica di lavoro che stringeva a sé vita e opera, l’artista di Sant’Agata del Bianco ha ricordato al mondo, in maniera grandiosa, una totale verità. E lo ha fatto, liberamente, attraverso colori e figure che hanno la valenza di concetti poetici. Perché, al contrario degli americani, anche nel 2011, per Alba Dieni a fare la differenza è sempre l’uomo.
(Scritto tratto da un articolo di Domenico Stranieri pubblicato su Calabria Ora del 07 Ottobre2011)
Fàbon
Fàbon è il nome anagrammato del pittore Domenico Bonfà, nato a Sant’Agata del Bianco il 4 febbraio del 1912 e morto a Roma il 27 agosto del 1969. Fàbon era un artista sensibilissimo, votato ad una pittura che ai colori della sua terra univa quelli dell’intero spazio mediterraneo. I suoi paesaggi rivelano, difatti, un’istintiva originalità soprattutto laddove le figure appaiono e scompaiono con aria quasi impenetrabile.
Ma prima di essere Fàbon, Domenico Bonfà è il figlio del migliore falegname ed intagliatore della Locride, Vincenzo Bonfà detto Brendolino, un uomo che non teme di confrontarsi con i falegnami di tutta Italia esibendo la maestria dell’antico artigianato santagatese che, sin dall’Ottocento, è rinomato nell’intera provincia di Reggio Calabria. Sulla sua lapide, difatti, si può ancora notare una medaglia vinta a Firenze nel 1923 in occasione dell’Esposizione Permanente d’Arte Industriale. Il giovane Domenico sembra destinato a ereditare il mestiere del padre anche se ha, prima di tutto, una peculiare predisposizione per il disegno. Tratteggia visi e scenari ovunque gli capita: pezzi di compensato, tavolette, cartone, brandelli di lenzuola.
Così, nel 1926, il falegname Vincenzo, incoraggiato da tanti suoi compaesani che intravedono il talento del figlio, manda Domenico a Catania per apprendere gli elementi della pittura in una bottega d’arte, alla maniera degli artisti del Rinascimento.
Nella città siciliana il giovane rimane sette anni. Rientrato a Sant’Agata sposa una sua parente, Carmela Curulli, appena arrivata dal Canada.
Ecco come lo ricorda il poeta santagatese Giuseppe Melina: “ La casa di Fàbon è uno spazio d’incontro dove respira il paese intero. Ma il pittore Fàbon non cerca compagni solo in chi si interessa d’arte. E’ amico di contadini e artigiani. Penso le partite a carte. Interminabili. E per un bicchiere di vino spesso si balla. E Fàbon diviene il centro di queste sere. Tutto si muove intorno a lui. E in rapporto a le sue decisioni. L’armonia del suo corpo ci rende ridicoli, quasi. Ma perché ogni gesto, ogni movenza è ritmo puro in quest’uomo. E non solo se balla. Perfino come fuma o conversa con qualcuno”.
Nel 1933 arriva il trasferimento a Reggio Calabria, dove il giovane pittore affina la sua ricerca verso la definitiva conquista della forma. Il suo è un continuo migliorarsi. Dal 1938 si sposta per varie città italiane insieme alla moglie. A Bari, proprio nel ‘38, partecipa ad una mostra collettiva del “Paesaggio Albanese”. Ma nel 1942 arriva la chiamata alle armi e Domenico si ritrova in Africa dove, a Tobruch, viene fatto prigioniero. I colori del deserto libico gli rimarranno dentro e caratterizzeranno molte sue opere. Rientrato in Italia inizia l’attività espositiva prima a Catania (1945) e gli anni a seguire a Reggio Calabria (un paesaggio del 1949 è tuttora esposto alla Pinacoteca Civica della città dello Stretto).
Nel frattempo un altro pittore, Alberto Bonfà (di Bianco), che ha frequentato l’Accademia delle Belle Arti a Napoli, si fa apprezzare per la luce dei suoi paesaggi.
Anche per questo motivo, Domenico pensa di creare dal suo cognome una firma originale che lo faccia distinguere dall’altro Bonfà. Inizia così a contrassegnare i suoi primi lavori con un nome d’arte che non abbandonerà più: Fàbon. L’idea gli è suggerita dal poeta reggino Ciccio Errigo, suo amico.
Dopo il 1946 Fàbon comincia nuovamente a viaggiare per l’Italia. Affresca chiese e dipinge quadri di una segreta spiritualità, volti di donne misteriose, paesaggi intensi.
Nel settembre del 1955 ad Assisi, dopo aver esposto al Palazzo dell’Arte Sacra in una mostra internazionale, Fàbon riceve il diploma d’onore per “alti meriti artistici”. In seguito allestisce le sue opere anche a Genova, Arezzo, Ravenna, Firenze, Messina nonché in Germania, in Francia, in Svizzera, in Argentina ed al Museum of Fine Arts di Montreal (1957). Quotidiani e riviste si mostrano attenti verso questo “pittore mediterraneo”.
Ma è nel gennaio del 1956 che arriva l’effettiva consacrazione, con l’esposizione al Pavone Art Gallery di New York. Gli americani riconoscono che: “nato nei pressi di Reggio Calabria, è un completo artista ed un creatore di un originale stile e di un nuovo sistema. Ha una ispirazione creativa con note malinconiche di musico e di poeta. E’ Domenico Bonfà in arte Fàbon. Messosi in luce nell’ambiente artistico europeo egli è un conquistatore di molti elogi e critiche. Orgoglioso e magnifico nella delusione e nella esaltazione artistica oggi egli viene ad incominciare una nuova era nell’arte del dipinto”. I giudizi della stampa statunitense sono ripresi assiduamente dai giornali italiani. L’arte di Fabòn ha ottenuto i meritati riconoscimenti.
A Roma, nello stesso anno, alla Mostra Nazionale d’Arte Contemporanea, viene premiato con la medaglia d’oro. Sono anni intensi, caratterizzati da molti spostamenti e continui ritorni in Calabria.
Nel 1958, alla III° Mostra Nazionale estemporanea di Ravenna, il pittore consegue una medaglia, il diploma d’onore ed il premio del presidente del concorso. Anche la mostra personale di Arte Sacra (maggio 1961) tenutasi nel Palazzo dell’Arcivescovado di Reggio Calabria è un successo. Il Ministro Umberto Tupini, dopo aver visionato le opere esposte, avrà parole lusinghiere per l’artista.
Nel 1966 Fàbon è nominato accademico della “Accademia Tiberina” di Roma per “notevoli requisiti morali, culturali e scientifici”.
Nel 1968, difatti, a 56 anni, l’artista viene colpito da una neoplasia maligna che lo costringerà a curarsi a Roma e che gli risulterà fatale.
Qualche mese dopo la sua scomparsa, su Il Giornale d’Italia del 16 novembre 1969, Paolo Borruto scriverà: “I giudizi, dunque, consacrati dai critici su tutti gli organi di stampa più importanti, ed in tutto il mondo, concordano nel lodare la spontaneità, il vigore, la raffinatezza del gusto, l’arte, le proporzioni, di questo autentico Artista che l’Italia si onora di annoverare tra i migliori dell’ultimo ‘900. Egli presagì la fine. Ne è testimone la sua ultima tela che raffigura un volto egizio che appunta lo sguardo profondo, attonito, su una mummia collocata in una bara. La morte lo colse ancor giovane il 27 agosto 1969”.
(Testo a firma di Domenico Stranieri tratto da Il Quotidiano della Calabria del 16 ferraio 2014)
Giuseppe Melina
Giuseppe Melina nasce a Sant’Agata del Bianco (RC) il 16 marzo 1920. Dal 1948 al 1983 frequenta alcuni tra i più importanti intellettuali italiani e lavora a Genova (dove si era iscritto alla Facoltà di Lettere e Filosofia). Durante gli anni genovesi, insieme ad altri compagni, forma il “Gruppo di Cultura Moderna” che anticipa già le inquietudini degli anni ’60.
Dal 1945 al 1960 scrive varie opere di gusto neorealista. Successivamente rifiuta e distrugge tutti i testi prodotti. Salva soltanto il poema LE ANDRENE (che pubblicherà nel dicembre 2001).
Nel 1968 fonda il gruppo L’AVAMPOSTO, che così definisce in una nota: “Il Gruppo L’avamposto non si forma attorno a una poetica. La sola base comune è data dalla concezione della cultura come modo di essere……Esso costruisce gli strumenti per agire all’interno del sistema sociale non in funzione di una generica contestazione, ma come presenza di una dimensione umana che il mondo legittimista non può strumentalizzare, né deformare”.
Con il Gruppo L’Avamposto, Melina pubblica:
Saggistica: Sei lupo, ape o caccola di caprone? (Genova 1968)
Due più due fa cinque (Sant’Agata 1986)
Narrativa:
Una mano davanti e una dietro (a foglia di fico) – (Sant’Agata 2001)
Una parola solo pensata. (e spenta nel respiro) (Sant’Agata 2001)
Poesia:
Appunti per un lamento di prèfica (Genova 1988)
Il gene-icaro e le tossine de l’oggettivo (Sant’Agata 1989)
Parabola in 6 tempi e 3 ipotesi (Sant’Agata 1989)
Gli Dei incompiuti (Sant’Agata 1989)
Ho danzato con la mia ombra (Sant’Agata 2001)
Monologo delle solitudini (Sant’Agata 2001)
Le Andrene (Genova 2001)
Dal 1983, data del suo ritorno in paese, Melina diventa punto di riferimento culturale per intere generazioni di giovani che frequentano quotidianamente la sua casa. Muore a Sant’Agata del Bianco il 19 settembre 2001. Sulla sua lapide, è inciso uno dei pensieri di Pascal:
“L’uomo è la più fragile canna della natura, ma una canna che pensa
Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo; un vapore,
una goccia d’acqua bastano per ucciderlo. Ma, quand’anche
l’universo intero lo schiacciasse,
l’uomo sarebbe lo stesso più nobile di chi lo uccide,
perché sa di morire, mentre l’universo invece non ne sa nulla”.
(Pascal, Pensieri, n. 347)
Saverio Strati
Saverio Strati è uno scrittore italiano nato a Sant’Agata del Bianco (RC) il 16 agosto 1924 e morto a Scandicci (FI) il 9 aprile 2014 a Scandicci.
Dopo gli studi primari inizia a lavorare con il padre come muratore e diventa capo-mastro. Grazie alla sua passione per la lettura, nel corso degli anni legge tante opere della cultura popolare come “Quo Vadis” di Henryk Sienkiewicz o “I miserabili” di Victor Hugo.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, decide di riprende gli studi. Con l’aiuto finanziario di uno zio che abitava negli Stati Uniti, inizia a ricevere lezioni private da parte di alcuni professori della Scuola Media Galluppi di Catanzaro e comincia a leggere anche grandi scrittori come Croce, Tolstoj, Dostoevskij o Verga. Nel 1949 ottiene il titolo di liceo classico e si iscrive in Medicina presso l’Università di Messina (Sicilia) per soddisfare i desideri dei genitori; tuttavia, dopo un breve periodo di tempo, si trasferisce alla Facoltà di Lettere.
Decisivo per il suo destino di scrittore è l’incontro con il critico letterario Giacomo Debenedetti che in quel momento insegnava a Messina e del quale diventa uno degli allievi prediletti. Nel 1953, Debenedetti legge il libro di racconti “La Marchesina” e ne sollecita la pubblicazione presso Alberto Mondadori a Milano. Durante questo periodo Strati inizia a scrivere il suo primo romanzo “La Teda”.
Nel giugno del 1953 incontra Corrado Alvaro a Caraffa del Bianco e poi si trasferisce a Firenze per preparare la sua tesi di dottorato su riviste di letteratura dei primi due decenni del ventesimo secolo. Intanto, i racconti di Strati vengono pubblicati sulle riviste “Il Ponte”, “Paragone” e sul quotidiano “Il Nuovo Corriere”. Subito dopo aver completato “La Teda” inizia a scrivere il suo romanzo più poetico, “Tibi e Tascia”, edito sempre da Mondadori nel 1959. Nel 1958 Strati sposa una ragazza svizzera e si trasferisce in questo paese dove vive fino al 1964 (periodo durante il quale scrive diversi romanzi e numerosi racconti). Nel 1972 vince il Premio Napoli e nel 1977 il PREMIO CAMPIELLO con il romanzo Il Selvaggio di Santa Venere. I libri di Strati vengono stampati in tutto il mondo. Ma dopo il bellissimo romanzo L’uomo in fondo al pozzo (1989), la casa editrice Mondadori, inspiegabilmente, decide di non pubblicare più le sue opere. Inizia un oblio che porta lo scrittore, nel 2009, a scrivere una drammatica lettera a Il Quotidiano della Calabria dove denuncia la sua condizione di indigenza. Il Consiglio dei Ministri, nel 17 dicembre 2009, riconosce a Strati i benefici economici della Legge Bacchelli in riconoscimento ai suoi meriti artistici. Il suo paese, Sant’Agata del Bianco, con le sue storie, la sua umanità ed i suoi personaggi, resterà per tutta la vita fonte di ispirazione inesauribile.
Opere di Saverio Strati:
- La marchesina [racconti] – Milano – Mondadori – 1956
- La teda [romanzo] – Milano – A. Mondadori – 1957
- Tibi e Tascia [romanzo] – Milano – A. Mondadori – 1959 – Premio Internazionale Veillon 1960
- Mani vuote [romanzo] – Milano – A. Mondadori – 1960
- Avventure in città [racconto lungo, poi confluito in Gente in viaggio] – Milano – Mondadori – 1962
- Il nodo [romanzo] – Milano – A. Mondadori – 1965 – Premio Sila 1966
- Gente in viaggio [racconti] – Milano – A. Mondadori – 1966 – Premio Sila 1966
- Il codardo [romanzo] – Milano – Bietti – 1970
- 2 racconti inediti di Saverio Strati – Firenze – Galleria Pananti – 1970
- Il padre del Sole con 12 disegni di Silvio Loffredo – Firenze – Galleria Pananti – 1970
- Noi lazzaroni [romanzo] – Milano – A. Mondadori – 1972 – Premio Napoli 1972
- È il nostro turno [romanzo] – Milano – A. Mondadori – 1975
- I cento bambini [favole] – Cosenza – Lerici – 1977
- Il selvaggio di Santa Venere [romanzo] – Milano – A. Mondadori – 1977 – Premio Campiello 1977
- Il visionario e il ciabattino [romanzi brevi] – Milano – A. Mondadori – 1978
- San Gregorio Magno – Firenze – Pananti – 1978
- La bella Aurora – Firenze – Pananti – 1979
- Il diavolaro [romanzo] – Milano – A. Mondadori – 1979
- Terra di emigranti [racconti] – Firenze – Salani – 1979
- Piccolo grande Sud [racconti] – Firenze – Salani – 1981
- Re Pero – Firenze – Lisciani-Giunti – 1981
- 57 favole – Firenze – Pananti – 1982
- Al mare insieme agli altri – Firenze – Pananti – 1982
- Fiabe calabresi e lucane – scelte da Luigi Maria Lombardi Satriani e tradotte da Saverio Strati – Milano – A. Mondadori – 1982
- I cari parenti [romanzo] – Milano – A. Mondadori – 1982
- Ascolta, Stefano