Un rituale che mantiene inalterato tutto il suo cerimoniale in quasi tutte le famiglie di genesi contadina, è quello dell’uccisione del porco, la cui tradizione trae origine dal sacrificio che i romani facevano ai Lari, dèi protettori della famiglia. Secondo altri, invece, la tradizione trae origine dal nome della dea Maia cui il maiale veniva offerto in sacrificio. Le sue origini sono antichissime. Molti ritengono infatti che esso derivi direttamente dal cinghiale. Si presume che la domesticazione del maiale sia avvenuta in Cina, oltre 7.000 anni fa, mentre l’allevamento vero e proprio dovrebbe essere incominciato con gli antichi egizi, greci e romani, per svilupparsi ancora di più durante il periodo medievale. Oggi il maiale viene allevato soprattutto in Asia, nelle Americhe e nel continente europeo. In Italia esistevano in passato molte razze locali, mentre oggi le razze di maiale italiane più note sono il maiale calabrese, il maiale casertano, il maiale senese, il maiale moro romagnolo, il maiale nero siciliano e il maiale sardo. Il maiale possiede un elevato valore economico perché la produzione della sua carne è favorita dalla rapidità del suo ciclo vitale e dalla sua eccessiva voracità. La scrofa ( ‘a troja ) ha un periodo di gestazione di 114-115 giorni ed è uno degli animali più prolifici, riuscendo a partorire da otto a nove maialetti per volta ( alcune razze, addirittura, da diciotto fino a venti ). Le sue mammelle possono arrivare fino a sedici, otto per ogni lato. E’ l’animale che in fatto di resa supera tutti gli altri animali domestici in fase di macellazione, specie se, come si usava una volta, per farlo meglio ingrassare, veniva evirato, cioè fatto monacegliu (monachello ) da appositi castratori di maiali che andavano in giro per i paesi gridando, con le mani a conchiglia sulla bocca: “’U majulinaru…”. La sua uccisione ( quanti ricordi!) è stata sempre un giorno di festa… Già nei preparativi della vigilia, le persone incaricate per questo lavoro dovevano andare per prima cosa alla ricerca du’ cuppu, grande tronco d’albero internamente concavo dove deporre il maiale appena sgozzato. Inoltre bisognava reperire i coltelli adatti ad ogni tipo di taglio, presso amici e conoscenti, se non si possedevano in casa, e affilarli e pulirli con limone e sale. Occorreva disporre di una maida (majiglia) abbastanza grande dove deporre le parti del maiale grasse appena tagliate, che dovevano essere adoperate per il “cotto”, e tutta una serie di vasi di creta ( limbi, cortari e cugnetta ) dove conservare, per tutto l’inverno, determinati parti del maiale cotti e crudi, come la sugna, la jelatina, cioè la gelatina, le frittole ( in acqua e sale) e i ciccioli, meglio conosciuti da noi della Locride come mucciunati, ( curcuci dalle parti di Reggio). Chi non possedeva un apposito locale, doveva uccidere il maiale in mezzo alla strada, dove chiunque passasse di là non mancava di porgere alla famiglia che uccideva il porco il suo saluto augurale: “Boncicrisci!” cioè “Il bene vi cresca!” All’uccisione del maiale non dovevano mancare mai, come tradizione voleva, i compari ‘i vettiju e ‘i crisima, i sangianni, che avevano battezzato o cresimato un figlio, o il compare d’anello, e i parenti più stretti. L’appuntamento agli invitati, o almeno a coloro i quali dovevano partecipare personalmente all’uccisione del maiale, che avveniva quasi sempre tra la fine di dicembre e il periodo di Carnevale, veniva dato per le quattro, le cinque del mattino, quando s’incominciava già ad accendere il fuoco per riscaldare l’acqua nella caldaia. Al maiale, un giorno prima di essere ucciso, non veniva dato da mangiare, per cui il trugolo (scifu), quel giorno, rimaneva vuoto.
Ma quella mattina…dopo gli ultimi scrèpiti ( singulti ) il maiale veniva portato fuori dalla zzimba ( locale adibito a custodia dei porci ) e, dopo essere stato ben legato con corde di canapa da almeno quattro persone, veniva posizionato con la testa fuori dal cuppu, con lo scopo di far defluire il sangue in una limba ( grande zuppiera di terracotta smaltata ). In questa posizione gli veniva conficcato un coltello lungo oltre venti centimetri e appuntito ( ‘u scannaturi) nella carotide, mentre tutti i presenti ripetevano mentalmente: “Morti a a ttia e saluti a mmia” ( “Morte a te e salute a me”), e il grido del maiale, che lacerava l’alba, annunciava a tutto il paese che Mastr’Antoni ‘u barberi, in questo caso mio padre, facìa ‘u porcu, oppure er’‘e luttu, cioè ammazzava il maiale. Ricordo che ero bambino quando lo vedevo tornare tutti gli anni con un maialino bianco, di qualche mese appena di vita, che aveva comprato alla fiera di San Michele, che si teneva in località Lazzaretto del mio paese di Benestare negli ultimi giorni di settembre. Intanto, qualcuno provvedeva subito a mescolare con uno stecco di legno, uncinato da una parte, il sangue che fuoriusciva a fiotti nella limba perché non coagulasse, dovendo preparare, nei giorni successivi, una rara specialità della nostra tavola chiamata sanguinacciu, o più comunemente pizza, che andava trattato con latte, cacao, vino cotto, zucchero e cannella., e di cui le nostre mamme e le nostre nonne erano particolarmente ghiotte. Dopo questa operazione, il maiale veniva sospeso in aria ad altezza d’uomo, tramite un legno biforcuto simile a un boomerang, chiamato gambegliu, che, passando attraverso i tendini dei piedi posteriori, veniva agganciato con una corda al ramo di un albero, o un palo di legno infisso in un muro, e sospeso in aria con la testa rivolta in giù. In questa posizione, dopo ripetuti getti di acqua bollente prelevata dalla caldaia, il maiale veniva raschiato e pulito con sale, limoni e bicarbonato di sodio. Incominciava così il sezionamento del maiale. Per prima cosa veniva incisa la carne intorno alla testa, che restava legata al resto del corpo, penzoloni, fino alla fine.
Quindi, veniva eseguita un’incisione verticale, che, partendo dal ventre, attraverso la cotenna raggiungeva il sottomento fino ad intersecare il taglio eseguito precedentemente intorno alla testa. Venivano allora tagliati i quattro piedi e immersi in acqua calda per ammorbidirne i peli al momento della depilazione; i gambuna ( gamboncelli ) anteriori. Dal sottomento e dal ventre, veniva tagliata la carne grassa che serviva per la confezione delle pancette, mentre dalle cosce posteriori veniva tagliata quella per i capocolli, che sarebbe stata, successivamente, trattata con sale, prima di essere lavorata a seconda dell’uso che se ne sarebbe fatto. Veniva, quindi, tagliata la carne a strisce verticali di 10-15 centimetri circa per le frittole, partendo dall’alto. La parte di lardo posta sul collo, ‘u cozzu, veniva tagliata per confezionare il lardo ( ‘u salatu), e similmente si procedeva con quella del sottomento ( ‘u buccularu) che, veniva cosparsa di peperoncino piccante in polvere e appeso sotto le tegole della cucina ad asciugare. Veniva quindi otturato il budello della vescica con una pezzuola per evitare la fuoriuscita di escrementi organici e l’entrata di acqua bollente che avrebbe forato le budella. Quindi si eseguita un’incisione di forma circolare sulla vescica che veniva estratta, mettendola in salamoia per qualche giorno, dopodichè veniva inserita all’estremità del budello una cannuccia attraverso la quale si soffiava formando un palloncino, che, accuratamente chiuso, dopo averlo fatto seccare, veniva usato per la confezione di un capocollo. Sulla carne posta intorno alla vescica si incidevano le pancette da estrarre, che, prima di essere ben strette con canne e spago, venivano lasciate in salamoia per diversi giorni. A questo punto veniva estratta anche la testa, lasciando ancora la lingua legata al resto del corpo, mentre il maiale veniva diviso in due tronchi ( menzìni).. Si estraevano le budella per confezionare il salame ( sarzizzi e supprezzati) con tutte le interiora ( ‘u campanaru), e si tagliavano le costole, mentre, ultimi, venivano asportati i due gamboni dei piedi posteriori. Una volta si usava trarre dei presagi a seconda di come si presentavano le parti del maiale. Dal rene si pensava si potesse conoscere in anticipo il sesso dei nascituri, mentre i vecchi e i bambini avevano il privilegio di gustare la prima carne magra, che veniva tolta dalla brace ardente, con la convinzione che tutta la carne si sarebbe conservata in stato ottimale per tutto l’anno. Il primo giorno era sempre dedicato al taglio della carne per il riempimento delle salsicce e delle soppressate, mentre il secondo era interamente dedicato al cotto del maiale, cioè alla cottura delle frittole nella caldaia. La carne, grassa e magra, veniva tagliata tutta a pezzettini col coltello per favorire una migliore solidificazione del salame, e cosparsa di peperoncino piccante in polvere o in salsa umida, dopo essere stata trattata con vino rosso e pepe nero.
All’estremità del budello veniva introdotto un imbuto di legno per mezzo del quale veniva inserita la carne facendo pressione col pollice della mano, avendo cura di farla arrivare fino alla parte estrema dello stesso, pressandola con le mani allo scopo di non lasciare spazi vuoti d’aria che, oltre a non favorirne una perfetta solidificazione, avrebbe creato muffa, per cui si eseguivano ripetuti fori con un ago nella salsiccia per eliminare l’aria eventualmente creatasi all’interno del budello. Qualcuno, però, suggeriva di non eseguire fori con l’ago, per permettere alla carne di mantenersi sempre umida e conservare così tutti i suoi sapori. Gli insaccati così confezionati, esclusi i capicollo che venivano tagliati a pezzi interi dal collo del maiale, si mettevano sotto sale per alcuni giorni e trattati con salsa in polvere di peperoncino piccante, dopo averli stretti con spago e legati con mezze canne tagliate in senso verticale. Tutto il salame così confezionato veniva appeso in cucina sotto le travi del soffitto fatto di sole tegole a coppo, dove c’era aria necessaria per farli asciugare e solidificare. Ma proprio in quelle cucine vecchie di una volta non mancavano mai i topi ( i sùrici ) che addentavano il prezioso salame deteriorandolo. Contro questi immancabili roditori venivano predisposte intorno al salame delle pale di fico d’India ricoperte di spine, che impedivano ai ratti di avvicinarvisi. Similmente si faceva usando cerchi di ferro che sorreggevano le doghe delle botti da vino, o semplici cerchioni di bicicletta, sospesi alle travi della cucina, vicino al focolare, con filo di ferro a raggiera. Una volta così curato il salame, veniva custodito in sacchi di cotone o di tela per essere riaperto la vigilia di Pasqua quando, per antica tradizione, si calàvanu i sarzizzi, cioè si aprivano i sacchi e si potevano consumare le salsicce. Il giorno dopo dell’uccisione del porco era dedicato interamente ‘e cosi ‘i cardara , cioè alla cottura delle frittole (‘u cottu ) e di altri pezzi di carne grassa e magra in una grande caldaia, che veniva lasciata sulla brace per oltre quattr’ore.
Sul fondo della stessa, per oltre venti centimetri di altezza venivano sistemati i nzunzi, cioè i grassi del maiale, sopra i quali trovavano immediatamente posto i gamboncelli, in quanto, essendo a pezzo intero, richiedevano un tempo di cottura maggiore. Quindi si procedeva alla sistemazione dei piedi, delle orecchie e del ventre, avendo cura di disporre le frittole con la cotenna rivolta verso l’interno della caldaia, per dare modo al grasso, a contatto col rame, e quindi col calore più immediato della brace, di squagliare prima . Ma prima che la carne incominciasse a bollire, il tutto veniva dovutamente salato, dopo avere inserito le costole ( i costategli ), avendo l’accortezza di legarle prima con spago per evitare che la carne si disperdesse nella sugna. C’era l’abitudine a quei tempi, parlo degli anni 50/60, di fare le “mandate” ad amici e vicini di casa. Mia madre mi mandava in giro per la ruga, dove abitavamo, con piatti stracolmi di frittole, fegato c’’u chjppu (velo grasso del maiale ), e carne grassa e magra da fare ragù, mentre mio padre mugugnava a denti stretti per tutto quel ben di Dio che si disperdeva in regali, ogni qual volta uccidevamo il maiale. Le frittole, appena tolte dalla caldaia, venivano messe in un limba, per poi essere conservate nei cugnetti, recipienti di creta a bocca larga ricoperti di sugna, dove trovavano sempre posto pezzi di gamboncelli senza osso ( da consumare a maggio, al tempo delle fave) , mentre una parte veniva tenuta a portata di mano per il consumo immediato. Anche i ciccioli, residui di carne grassa e magra, solidificati e ricoperti di sugna, venivano conservati allo stesso modo delle frittole, ma solo in contenitori di creta più piccoli che avevano una durata nel tempo più limitata. La gelatina, invece, che si otteneva dalla quantità d’acqua residuata nella caldaia, o appositamente aggiunta durante la cottura, veniva consumata nei giorni seguenti, gustosa, ma nociva alla salute, essendo brodaglia molto salata in cui si era lavata tutta la carne, mentre tutto il resto del maiale veniva gelosamente custodito ( quando non c’erano congelatori ) con metodi primitivi e artigianalmente molto validi, per tutto l’anno. E questo era il motivo per cui i nostri contadini dedicavano circa sei mesi all’anno alla nutrizione del maiale, da agosto-settembre fino a gennaio-febbraio, ma non oltre Carnevale, comunque, col brodo che rimaneva dopo il lavaggio dei piatti della cucina quotidiana in cui si mescolavano canigghja (crusca) e altri farinacci. Ma erano le ghiande il nutrimento che faceva ingrassare di più i maiali, grazie alle querce che crescevano spontaneamente nei campi e che costituivano una grande risorsa naturale per tanta gente che non aveva la possibilità di spendere soldi per la loro alimentazione. Sacrifici, questi, che venivano ricompensati dalla fonte di ricchezza che rappresentava il maiale per tutto l’anno e che era motivo si sicurezza e di gioia per ogni famiglia, come dice il proverbio: “Cu’ si marita è cuintentu ‘nu jornu, cu’ mmazza ‘u porcu è cuntentu pa ‘n’annu” . E per i nostri antenati, i detti, i proverbi e i modi dire non rappresentavano solo la loro cultura empirica in pillole, ma leggi di vita quotidiana.
Si ringrazia l’ autore Franco Blefari – tratto dal volume “GENTE DI QUEL PAESE DI GESSO” (Ambienti, personaggi, tradizioni e vecchie foto di gente e di quelle case di gesso del mio paese )