Numeroso e qualificato pubblico, interessato sempre di più a conoscere il nostro territorio, durante la presentazione del libro “Don Antonino Pelle Superiore del Santuario di Polsi” di Bruno Pelle, Ugo Mollica e Bruno Palamara presso il Centro pastorale diocesano di Locri alla presenza, tra gli altri, del Vescovo Mons. Oliva. E’ stata un’occasione per il nostro scrittore di Africo, da anni teso alla divulgazione della storia del nostro paese, di parlare della figura di un sacerdote, come don Antonino Pelle, che tanto ha dato ai nostri nonni, un prete “al servizio di Dio e del prossimo”, soprattutto in quel suo decennio di attiva e feconda permanenza a Casalnuovo d’Africo (1925-1935), dove il sacerdote, “venuto da Antonimina”, ha fatto di tutto, il padre spirituale, il “medico”, l’infermiere, il conciliatore, il maestro e la guida di tanti giovani. Don Pelle è stato uno dei protagonisti positivi a Casalnuovo e per Casalnuovo, “colpevolmente” rimasto nell’ombra per tanti, troppi anni. Ed è per questo che anche noi vogliamo dare un contributo alla conoscenza di questa nobile figura di sacerdote, che, per l’opera svolta in favore della popolazione de “la perduta gente”  di Casalnuovo, merita di essere messo sullo stesso livello di Umberto Zanotti Bianco, benefattore storico di Africo e Casalnuovo, pubblicando l’integrale relazione che Bruno Palamara ha svolto al Convegno di Locri. Eccola:

“Don Antonino Pelle a Casalnuovo d’Africo Casalnuovo negli anni venti del ‘900. Un sociale da evangelizzare Non mi è difficile parlare di don Antonino Pelle, perché di lui ho cominciato a sentire parlare fin da quando ero ragazzino e ascoltavo mia madre che raccontava la sua vita da ragazza e spesso il discorso poggiava proprio sul sacerdote di Antonimina che a Casalnuovo d’Africo è stato “Arciprete” per ben dieci anni, dal 1925 al 1935. Ricordo che ne parlava con ammirazione e devozione, descrivendolo come una persona straordinaria, impegnato sempre per il bene comune. Ecco, perché, quando Bruno Pelle mi parlò del suo progetto di fare un’opera che potesse ricordare e trasmettere alle generazioni future il mirabile esempio e la feconda opera “pastorale” di don Pelle, ho accettato ben volentieri. Ho cercato notizie, aneddoti, fatto delle interviste a persone, alcuni novantenni lucidi che lo hanno visto operare in quel difficile paese chiamato Casalnuovo. Da tutto ciò è venuto fuori un personaggio eccezionale che mi ha entusiasmato e che, sono sicuro, leggendo il libro, appassionerà anche voi. Ma per poter giudicare serenamente e coscientemente la sua grande opera apostolica è necessario fare una breve analisi di ciò che era negli “anni venti” del secolo scorso quel piccolo paese immerso nel profondo Aspromonte, Casalnuovo d’Africo, che, pochi tra i presenti, conoscono e di cui, forse, qualcuno non avrà mai sentito il nome. Casalnuovo è un paese ormai perduto, distrutto dalla disastrosa alluvione del 1951, la stessa che ha distrutto Africo Vecchio, ricostruiti insieme poi ad Africo Nuovo presso Capo Bruzzano. A dispetto della mancata notorietà, però, Casalnuovo ha una sua autonoma e dignitosa storia, multisecolare, una storia avvincente, dipanatasi parallela a quella di Africo, una storia che brevemente ora cercherò di descrivervi. Costruito intorno all’anno Mille su una rupe alla destra del torrente Aposcipo, in una zona impervia e isolata al centro dell’Aspromonte, lontano sedici chilometri da Bova Superiore, zona sicuramente scelta nel tentativo di sfuggire all’incubo rappresentato dalle feroci incursioni dei Saraceni che per lungo tempo invasero le spiagge di Capo Bruzzano. Dell’esistenza di Casalnuovo si ha notizia già sin dal XIII secolo, come ci informano le “Disposizioni” di Federico II nel 1220. A. Oppedisano ci parla della costruzione nel 1629 della Chiesa “SS. Salvatore”, eretta prima ad oratorio, poi con la bolla del Vescovo Barisani del 4 dicembre 1798 elevata a chiesa parrocchiale; G. Vivenzio ci ricorda che il devastante terremoto del 1783, che colpisce la zona ionica aspromontana, fa a Casalnuovo notevoli danni: muoiono sei persone e i danni ammontano a più di settantamila ducati; Lorenzo Giustiniani nel 1797 ci informa che il paese era abitato da circa 600 persone, tutte addette all’agricoltura e alla pastorizia, in un periodo in cui dominava la famiglia Carafa, de’ principi di Roccella: Casalnuovo è ricordato anche e soprattutto per il fatto che era uno dei pochi centri in cui era fiorente la coltivazione del baco da seta. 1 I terremoti del 1905 e del 1908 danneggiano gravemente Casalnuovo. Anche la chiesa di San Salvatore subisce danni irreparabili. Certamente, in quel 1925, la parrocchia di Casalnuovo, la sua prima parrocchia, non era delle più comode per il giovane Antonino, fresco di nomina sacerdotale, perché il paese viveva una realtà assurda, inverosimile e, per certi versi, inimmaginabile, povero e isolato, immerso com’era nel cuore dell’Aspromonte, forse la comunità parrocchiale più disagiata dell’intera Diocesi. In quegli anni Casalnuovo d’Africo aveva pessima fama. Era stata tana del brigante Musolino, e poi a quei tempi sei ore di mulo ci volevano per arrivarci, addirittura Gerard Rholfs lo aveva definito, insieme al capoluogo, “il paese più isolato, e più infelice, della Calabria”. Era, in effetti, un paese sperduto tra i monti, lontano dalla vita civile, senza strade di collegamento, senza edificio scolastico, né luce elettrica, le case erano veri e propri tuguri, un paese tanto disagiato che maestri e maestre rinunciavano all’incarico d’insegnamento per i particolari disagi che si dovevano affrontare per raggiungerlo. La popolazione viveva in condizioni così degradanti che lasciavano sbigottiti. Sarà Zanotti Bianco, archeologo e filantropo nel 1928 con “Tra la perduta gente”, a svelare al mondo intero le incredibili, tragiche e penose condizioni in cui versava Casalnuovo insieme con il suo capoluogo Africo. L’istruzione era assolutamente insufficiente, l’85% della popolazione era analfabeta, non esisteva il medico sul posto, c’era la totale assenza dei servizi sanitari, la nutrizione insufficiente per qualità e scarsità di cibo, frequenti casi di gozzo e di tubercolosi, c’è un’altissima mortalità, soprattutto infantile. Per mancanza di frumento, per la scarsità del grano, spesso il pane è fatto con farina di lenticchie, di cicerchie e d’orzo e perciò poco nutriente e facile ad ammuffire, dal gusto acido e amaro. Spesso, non avendo altro, sono costretti ad alimentarsi, con ortica cotta e ghiande. “Li vedo …coricarsi, uomini, donne, bimbi, su quei vasti miserabili giacigli che ingombrano gran parte delle loro tane” scrive in “Tra la perduta gente” il conte Zanotti. Spesso vi prendono posto anche gli animali! Casalnuovo doveva apparire come un luogo dimenticato dal mondo, estraneo alla civiltà e protagonista di una vita vissuta al limite del verosimile, una vita di sofferenze, sacrifici e di tremende avversità. Il delicato compito che, coraggiosamente, gli aveva affidato Mons. Chiappe era quello di risollevare le sorti di una parrocchia che non viveva un periodo di grande credibilità, credibilità venuta meno perché la Comunità di Casalnuovo nel giro di un ventennio aveva patito, malvolentieri, l’alternarsi, non sempre positivo, di ben sei sacerdoti. Don Antonino Pelle si dimostra fin da subito, di tutt’altra “pasta” rispetto ai suoi predecessori, tanto che, volentieri e per sua scelta, ben due lustri in quella che diventerà la “sua” parrocchia, beneamato e riverito dal popolo di Casalnuovo. “Volarono dieci anni – 2 scriverà don Iannizzi – di apostolato intenso e difficile … in tempi tristi ma pieni di giovanile entusiasmo e di dedizione totale”. E’, quindi, una triste e incredibile realtà quella che si trova di fronte il giovane sacerdote di Antonimina, quando in quel lontano luglio 1925 inizia la sua missione sacerdotale. Ha, però, fin dal suo arrivo la capacità di vincere la proverbiale diffidenza di una comunità poco avvezza ad aprirsi al forestiero, anzi da qualcuno dipinta come “gente fiera, gelosa e alquanto selvatica”. La gente di Casalnuovo, in effetti a prima vista rude e arcigna, ma fondamentalmente onesta e orgogliosa, fin dall’inizio accoglie con favore don Antonino. Sono particolarmente il sindaco Giuseppe Morabito e la famiglia dei Palamara, che al suo interno ha già don Pasquale Palamara, futuro parroco di Bianco, fin dal suo primo arrivo a non fargli mancare quel calore umano necessario ad un giovane che viene da fuori e da lontano. Il popolo dei fedeli lo chiama semplicemente, e bonariamente, “Arciprete”, pronunciato con quel rispetto che solo una persona dotata di grande carisma, come don Pelle, sa suscitare. Per questo, Don Antonino, uomo mite, ma deciso e dotato di una forte personalità e con una spiccata intelligenza, si mette primieramente al servizio della gente, di tutta quella gente carica di problemi, anche di sopravvivenza. E lui ascolta, consiglia, vive in mezzo ad essa, condivide gli stessi problemi della Comunità. Sosta spesso nella piazza del paese, dove ha l’opportunità di dialogare con tutti. La gente si affida con fiducia e speranza a quest’uomo di Chiesa, “mandato dalla Provvidenza”. Per Casalnuovo Don Antonino, infatti, è tutto, padre spirituale, sacerdote, medico, maestro, conciliatore. Egli opera in tutti i campi, non risparmia nulla di se stesso, divenendo con la sua straordinaria operosità spirituale e sociale il punto di riferimento dell’intera Comunità. Non si limita, cioè, al solo ruolo proprio del suo ministero sacerdotale, ma si adopera attivamente in ogni campo. E così in un paese che si caratterizza per la cronica mancanza di un medico e di qualsiasi assistenza igienico-sanitaria, il giovane Arciprete espleta, quando serve, anche le funzioni proprie di medico chirurgo, divenendo, praticamente, come ha detto qualcuno, “medico” dell’anima e del corpo di questa povera e prostrata comunità. Casalnuovo, infatti, è lontano dal “mondo”: il più vicino ospedale, quello di Melito Porto Salvo, dista quaranta chilometri, da percorrere per metà a piedi tra quelle tortuose montagne con l’ammalato, trasportato in barella sulle spalle di quattro volenterosi, che spesso tornano indietro con il “malato” deceduto durante il tragitto. Il medico vive lontano e non arriva mai in tempo a curare tempestivamente i pazienti. E allora don Pelle, che aveva acquisito con lo studio grandi conoscenze scientifiche, “si veste” da medico e fa da “pronto soccorso”. Interviene, perfino, anche nei casi di quel male endemico come il gozzo, di cui gran parte della popolazione di Casalnuovo è affetta 3 (Zanotti Bianco nel 1928 ne conterà 225 casi) e opera, anche con buoni risultati. Quante notti insonni, quanto incessante lavoro in quel paese! Don Pelle, convinto dell’importanza di istruzione e cultura per questa popolazione e in questo contesto, fa anche da “maestro” e avvia allo studio, veicolo di civiltà e di progresso spirituale, parecchi giovani. Tra questi citiamo proprio don Ciccillo Favasuli che gli sarà eternamente grato. Lo straordinario operato di don Antonino sarà riconosciuto anche, e per primo, da Zanotti Bianco, che lo definirà proprio il “buon Pelle”. I due si incontrano, si conoscono e si stimano. L’arciprete pèrora la causa di Casalnuovo, intrattenendo anche una proficua corrispondenza con il Conte, la cui inchiesta ottiene risultati concreti, come qualche struttura sanitaria, l’Ambulatorio dispensario e l’asilo. Ma il fatto che più ha favorevolmente colpito e che dimostra l’affetto, l’abnegazione e il senso di responsabilità del nostro Arciprete è la rinuncia a sedi di parrocchia più comode e confortevoli fatta da don Pelle. Nel 1927, erano passati solo due anni dalla nomina a parroco di Casalnuovo, don Antonino riceve una lettera del Vescovo di Gerace: “Arciprete, Agnana è vacante! Se hai intenzione di abbandonare Casalinuovo, scrivimi subito dopo aver pregato il Signore”. Don Pelle preferì restare fra “la perduta gente”. Gli sembrò opportuno, quasi naturale, rifiutare la proposta di monsignor Chiappe, preferendo rimanere a Casalnuovo, un paese che aveva cominciato ad amare e che aveva ancora estremo bisogno del suo aiuto e del suo sano attivismo. Sarebbe stato un “tradimento” lasciare una popolazione che credeva in lui e nella sua opera di rinascita. Casalnuovo si addolorò per il suo trasferimento avvenuto nel 1935, dopo ben due lustri di buon operato, ma anche don Pelle rimase per tutta la vita fraternamente affezionato a quella “perduta gente”, guardando sempre con occhio benevolo quelli che lui simpaticamente chiamava “i miei paesani”. Potrei citare e ricordare ancora innumerevoli e singolari aneddoti che riguardano la vita di don Pelle nella sua lunga permanenza a Casalnuovo, ma mi fermo qui per non togliervi il gusto e la curiosità di leggere il libro. Termino questo mio intervento con la consapevolezza e la certezza che Casalnuovo d’Africo o, per meglio dire, Africo sarà sempre grato alla nobile figura di don Antonino Pelle, che, alla pari di Umberto Zanotti Bianco, ha dato lustro e dà lustro alla storia di Casalnuovo. Per questo m’impegnerò con tutte le mie modeste forze, e lo dico alla presenza del giovane Sindaco di Africo, affinché don Antonino Pelle, uno dei grandi sacerdoti del secolo scorso, sia ricordato ad Africo con l’intitolazione di una via o di una piazza del paese intestata a suo nome. Grazie a tutti!”

Bruno Palamara – www.africo.net