Gli assassini di Massimiliano Carbone sono ancora senza nome. Sono trascorsi 18 anni dalla sera di quel 17 settembre 2004, quando l’imprenditore di Locri, appena trentenne, fu ferito mentre rincasava, insieme al fratello, dopo una partita di calcetto. Dopo sei giorni Massimiliano morì in ospedale, lo stesso dove andava a donare il sangue. Diciotto anni e nessuna giustizia per Massimiliano. Liliana Esposito, mamma di un figlio a sua volta padre, non si è mai stancata a denunciare il silenzio delle istituzioni.
Maestra Liliana, cosa è il diritto alla rabbia di cui parla don Luigi Ciotti?
«Il tempo è un mare senza sponde, e 18 anni un tempo che ha cristallizzato la verità sulla morte violenta di mio figlio, che per la sua amabilità e per i suoi progetti ha umiliato molti miserabili. Non c’è stato un tribunale che abbia condannato colpevoli, ma si sono acclarate alcune verità incontrovertibili, che per me sono già giustizia. Non parlo del mio dolore, perché ne ho custodia, e perché nessun lutto è condivisibile. Continuo a rivendicare e a esercitare il mio diritto all’indignazione, che ritengo vada sparsa e raccolta da ogni persona di buona volontà, da chiunque abbia un’etica. So che a qualcuno appaio strana, perché “dopo tanto tempo”, commemoro mio figlio, perché celebro la sua immagine, perché sono rimasta quieta quando sarei dovuta essere Erinni, tutta vendetta, giustizialismo e rancore».
Fare memoria mantiene in vita la speranza di ottenere giustizia?
«Per dare senso alla vita e all’esistenza di una famiglia dopo una tragedia che ha scompaginata per sempre, è necessario, ed è doveroso, strappare all’anonimato una storia, cercare i bisogni e le risorse dei familiari e dei territori, dare risposte alternative a quelle offerte dalla violenza. I nostri morti non devono essere i giovani per sempre da compiangere, ma storie alle quali restituire l’identità, che è unica e preziosa, e l’integrità della loro vicenda umana. Fare Memoria condivisa e viva, è imperativo morale, e diventa forza e speranza rinnovata».
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