R. e P.
“Gentile Professoressa,
spero che questa mail la trovi in buona salute e che la sua estate stia procedendo piacevolmente.
È trascorso un mese dalla conclusione dell’esame di terza media, e ho avuto modo di riflettere su questi ultimi tre anni trascorsi insieme. La ringrazio di cuore per tutto ciò che ha fatto per me e per i miei compagni di classe. Il suo insegnamento competente e appassionato ha contribuito in modo significativo alla mia crescita e al mio sviluppo come studente. Le sono riconoscente per la sua dedizione e per l’attenzione che ha dedicato al nostro apprendimento: oltre ad averci trasmesso le basi solide della lingua italiana, della storia e della geografia, è stata in grado di creare un ambiente di classe accogliente e stimolante. La sua capacità di coinvolgere gli studenti e di rendere le lezioni interessanti è stata davvero unica. Mi ha ispirato a impegnarmi di più e a non arrendermi facilmente.
Anche se ho concluso la scuola media, i ricordi che mi porto dentro e l’influenza che ha avuto sulla mia formazione continueranno a vivere in me. Le sono grato per la sua guida e spero che potremo restare in contatto, per condividere con lei le esperienze che farò durante il mio futuro percorso scolastico.
Le auguro una piacevole estate e un periodo di riposo e ricarica. La ringrazio ancora una volta per tutto e spero di rivederla presto.
Un caro saluto”.
Parole come queste ripagano di ogni fatica, infondono nuove energie, hanno il magico potere di incoraggiare una docente un poco sconfortata, rafforzandola nell’idea di proseguire per la strada intrapresa, continuando ad aggirarsi tra i banchi per recitare le poesie in mezzo agli alunni fino a commuoversene. Come accadde quando propose “X agosto”, al sopraggiungere di quei due versi che le tagliarono la carne, serrandole la gola con la loro disarmante, disperata icasticità: “E restò negli aperti occhi un grido…portava due bambole in dono”. La morte inaspettata di un uomo, il suo grido strozzato, due piccoli doni paterni additati al cielo lontano. Pascoli le ha sempre fatto uno strano effetto. Infatti la stessa scena si ripeté in occasione della recitazione de “Gli Aquiloni”, quando, dopo la festosa rievocazione degli antichi compagni di collegio, di fronte a “Urbino ventoso”, con il lancio, da parte di ciascuno, della propria “cometa per il ciel turchino”, emerge improvviso dai ricordi del poeta anche quel giovane dal volto esangue e consunto: “E te, sì, che abbandoni/ su l’omero il pallor muto del viso/”; quel compagno, “morto giovinetto”, sul quale l’autore pianse e “disse le orazioni”, ma di cui pure ora, divenuto adulto, quasi invidia la morte precoce e inconsapevole. Anche in quell’ occasione l’insegnante dovette fermarsi, perché le parole le morirono in gola e le si incrinò la voce, e si aspettava che iniziassero a sogghignare, bisbigliando: “Guardate, la prof che piange!”. Invece non un labbro increspato al più lieve sorriso; nemmeno una parola dalle loro bocche ammutolite e stupefatte.
La semplice, breve mail di un ormai ex alunno, ricevuta nel cuore dell’estate ma letta solo da pochi giorni, farà scegliere all’insegnante, anche quest’anno, di condividere con la classe piccoli episodi di vita privata; come quando, di ritorno dai funerali della nonna, raccontò di averle messo dentro alla tomba un pacco di caffè, bevanda a lei particolarmente gradita, in modo che il suo aroma e sapore potesse accompagnarla “nell’ultimo viaggio” e oltre; per far capire che, in fin dei conti, la morte è solo un cambiamento di stato e che c’è poco da temere dalla “bella Signora vestita di nulla”; ma soprattutto per far comprendere l’importanza di un passato che ancora ci abita, in quanto le tradizioni di ieri sopravvivano in quelle di oggi: Egizi, Etruschi, Greci, Romani ci appaiono allora sorprendentemente vicini, uomini come noi, con le nostre stesse paure e speranze.
Proseguendo nella lettura, riaffiorano ricordi sepolti, esperienze di anni si affastellano, si giustappongono, ormai disancorate da ogni riferimento cronologico e spaziale; immagini, le più disparate, fluttuano nella mente, galleggiando in un eterno presente. Le torna alla memoria la volta in cui decise di insegnare alla classe il coro di “Va’ pensiero”, esercizio mnemonico iniziato come per gioco e completato quasi senza accorgersene, tra un cambio d’ora e l’altro. O, ancora, quando fece recitare “La Signorina Felicita” di G. Gozzano, con l’assegnazione delle rispettive parti recitate a turno. Come non ricordare le prove di regia durante la spassosa scena del dialogo tra il farmacista pettegolo e Guido, innamorato e a sua volta ricambiato da Felicita, ma costretto a partire nel tentativo di curare la sua terribile malattia? Oggetto della loro conversazione in endecasillabi, il geloso “notaio furibondo”, spasimante non corrisposto dalla fanciulla:
-Ma dunque? – -C’è il notaio furibondo / con lei, con me che volli presentarla / a lei, non mi saluta, non mi parla! /-
-È geloso? –
-Geloso! Un finimondo! /-
-Pettegolezzi… –
-Ma non le nascondo/ che temo, temo qualche brutta ciarla/ –
-Non tema, parto –
La scena piacque tanto ai piccoli attori, che presto non ebbero più bisogno del copione.
E avanti a leggere e a ricordare i momenti più significativi, fino all’ultimo azzardo didattico, i dialoghi greci di Luciano di Samosata, in cui la classe fu chiamata ancora una volta a cimentarsi sul palcoscenico improvvisato dell’aula: il piccolo Ermes e le sue astute monellerie tratteggiate dalle parole di Poseidone ed Efesto; il dialogo tra Leto e Giunone, gelosa dei figli avuti dalla rivale col fedifrago marito e malignamente caustica nei confronti della “sedicente” vergine Artemide e del suo gemello Apollo, frutti di quell’infedeltà; le confidenze di Selene, innamorata del bell’Endimione, all’amica Afrodite. Ma soprattutto la stupenda nascita di Atena dalla testa di Zeus, dove un Efesto, improvvisato quanto atterrito ostetrico, tentenna davanti alla richiesta del padre degli dei di “tagliargli in due la testa con la scure più affilata” per fargli partorire la figlia Atena, la cui madre, Metis, egli aveva in precedenza ingoiato.
Letture inconsuete, forse, per una scuola secondaria di primo grado, di cui si scelse di lasciare a fronte il testo originale, avendo cura di sottolinearne alcuni termini in greco, per richiamarvi l’attenzione dei ragazzi.
-Prof, che cosa c’è scritto qui?
Sono sempre state le domande spontanee dei discenti a guidare, orientare, plasmare la lezione, che prendeva corpo nel suo stesso farsi, evolvendo, modificandosi in itinere.
La lettura di alcune parti in greco serviva a richiamare l’attenzione verso un mondo che alle orecchie dei ragazzi poteva suonare esotico e distante, ma forse proprio per questo insolitamente attraente. Copiando dalla lavagna qualche parola in lingua originale con la relativa traslitterazione, finiva per nascere in loro una gioiosa curiosità verso quei caratteri, molti dei quali sconosciuti, ma alcuni già noti per averli incontrati durante le lezioni di geometria, come non mancavano di osservare quasi in coro. E le poche fotocopie dell’alfabeto greco, lasciate su un angolo della cattedra quasi per scommessa, alla fine non bastavano mai, perché si presentavano in tanti a chiederne “una in più” a ricreazione. Anche quella temporanea sospensione delle attività didattiche finiva per trasformarsi in un piccolo laboratorio di scrittura e lettura, arrangiato tra un sorso d’acqua e un morso dato al panino. Allora la scuola si faceva realmente “ludus”, gioco, riacquistando l’antica pregnanza semantica del termine latino; un “serio ludere”, utile non solo a catturare la curiosità dei ragazzi, ma a farli riflettere su quanto questa lingua apparentemente “morta” sia in realtà “viva e vegeta”, in quanto il nostro italiano moderno si sostanzia, per così dire, “della sua carne e del suo sangue”. Così la “kleptikè tèchne” (arte del latrocinio) di cui il piccolo Ermes Mercurio aveva dato insuperabile prova nel dialogo letto, diventava, nell’ora successiva, il pretesto per lavorare sull’italiano e sulle sue evoluzioni: “cleptomani, megalomani e melomani” offrivano allora lo spunto per approfondimenti lessicali ed etimologici, facendo ritrovare tutto il senso (e il gusto) di un’antica paternità perduta; giocando tutti insieme a cercare e trovare altri termini derivanti dalla stessa radice, così che il vulcano spento della lingua “Greca” ritornava a farsi improvvisamente “attivo”, eruttando lapilli di parole.
(fine prima parte)
Livia Archinà