“Affinché quella ‘fama criminale’ possa essere fatta derivare dalla ‘spendita del nome’ della ‘ndrangheta calabrese, occorre che si provi che il tessuto sociale di riferimento (lontano dalla Calabria), anche in assenza di specifici ‘atti intimidatori’, sia automaticamente in grado di recepire i messaggio che quel collegamento evoca”. Così la quinta sezione penale della Corte di cassazione motivando, nell’ambito del processo Geenna con rito ordinario sulla ‘ndrangheta in Valle d’Aosta, l’annullamento con rinvio delle condanne inflitte in secondo grado.

E’ “evidente – si legge nelle motivazioni – la necessità di un annullamento della sentenza con rinvio ad altra sezione della Corte territoriale, perché si provveda a colmare le suindicate lacune motivazionali, tenendo conto, in via prioritaria, che in un caso come quello in esame, nel quale l’atteggiamento intimidatorio non ha mai assunto connotazioni esplicite, tantomeno spettacolari, non si è mai estrinsecato nella commissione di reati tipicamente e tradizionalmente ricollegati al fenomeno mafioso (omicidio, estorsioni, minacce, danneggiamenti…), e neppure ha portato alla condanna degli imputati per ‘reati-scopo’ di qualsivoglia natura, è evidente che le azioni compiute dai componenti l’associazione” possono “essere considerate rilevanti sotto il profilo della loro capacità di integrare l’elemento costitutivo del ‘metodo mafioso’, in quanto possano essere ritenute di per sé evocative della fama criminale dell’associazione stessa”.

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