Dal mensile IN ASPROMONTE di giugno 2014
Ci sono scenari fermi nel tempo, immagini che ognuno conserva nella mente senza sapere se tuttora esistano oppure no. E’ un fenomeno strano che sottintende la presenza eterna di qualcosa. Ed invece non è così. Poiché, nel momento in cui nulla sembra cambiare, luoghi e memorie si dissolvono o vengono volutamente cancellati.
E’ il caso della grotta di S.Florio (S. Gròlio nel gergo popolare) a Casignana. Essa si trovava su una collina, dalle pareti ripide, che ancora oggi è denominata con il nome del Santo. Le sue rocce si ergono torreggianti davanti al mare tanto che, da Caraffa del Bianco, si può scorgere una particolare angolazione laddove l’altura si mostra come il rudere di un grande castello di pietra.
Se invece ci si addentra fra tronchi, spelonche e sassi di ogni misura, quasi adagiate da una mano gigante, non è difficile fantasticare che questo luogo sia stato abitato in epoca primitiva, anche perché le grotte disposte a più piani garantivano un riparo sicuro contro gli animali.
Ma facciamo un passo indietro. Intorno al XI sec. sul versante jonico della provincia di Reggio Calabria oltre ai santi del posto (vedi S. Leo ad Africo) ed al fenomeno del monachesimo italo-greco si registra anche una migrazione di monaci dalla Sicilia. A questo periodo è legata la nascita di vari monasteri (molti distrutti nel corso dei secoli) e le leggendarie vite dei santi anacoreti (eremiti). Tra essi, in un lasso di tempo imprecisato, vi era anche S.Florio che, dall’antica Samo (Precacore), si diresse sulla collina che oggi porta il suo nome. Naturalmente non esistevano ancora i paesi di Casignana, Caraffa e Sant’agata del Bianco. Qui il Santo condusse vita ascetica vivendo in solitudine in un antro da lui stesso ricavato nella roccia. Se la ricordano in tanti quella specie di stanza, tra i castagni, con due aperture (soprattutto quella perfettamente squadrata). Gli anziani di Casignana rammentano persino che lì solevano nascondersi durante la seconda Guerra Mondiale quando, in lontananza, udivano il rumore degli aerei e, dunque, il preannuncio di un possibile bombardamento.
Di questo luogo fa menzione Giuseppe Dieni (“Dove nacque Pitagora?”, Frama Sud 1976) che, riportando le Memorie di V. Tedesco, sostiene che il Santo passò “i suoi giorni nella penitenza, e nella vita contemplativa dentro una grotta da lui stesso incavata nel sasso, che tuttora esiste, e ben si conserva”. Ma non solo. AncheDomenico Minuto (Catalogo dei monasteri e dei luoghi di culto tra Reggio e Locri, Storia e Letteratura 1977), Giovanni Musolino (Santi Eremiti italo greci. Grotte e chiese rupestri in Calabria, Rubettino 2002) e Vito Teti (Il senso dei luoghi: memoria e storia dei paesi abbandonati, Donzelli 2004) parlano nei loro testi della grotta di San Florio. Teti, ad esempio, sottolinea che “ nell’attuale territorio del comune di Casignana sono famose le grotte di San Grolio o di San Florio, il cui culto era attestato a Samo, caverne poco profonde scavate in una grande roccia di tufo in prossimità delle quali permangono rovine e una cappella che attestano la permanenza di monaci italo-greci”.
Ma c’è qualcosa che nessuno ha finora evidenziato, poiché si dà per certo che questo luogo “sacro” esista ancora. E cioè che la grotta di San Florio è stata completamente cancellata dalla faccia della terra, non c’è più. E’ stata distrutta dagli spaccapietre, impunemente. Proprio quella roccia tra centinaia di rocce. E non si capisce bene se tutto ciò sia successo durante i lavori per costruire delle muraglie o le varie case del paese. O forse per l’oscura schizofrenia di qualcuno. Sicuramente ha ragione Salvatore Settis (archeologo e storico dell’arte) quando sostiene che “il paesaggio è il grande malato d’Italia”. Tanto che, in un mix di indifferenza e malcostume, rinneghiamo quotidianamente quella “cultura urbana diffusa che vietava non alla mano, ma al cuore e all’anima di deturpare la bellezza”.
Anzi, la mutazione avviene silenziosa attorno a noi laddove, come dicevo all’inizio, tutto sembra non cambiare. Siamo, difatti, abituati alle devastazioni sensazionali, al saccheggio di predatori esterni che arrivano, senza storia né cultura, e aggrediscono le persone e le loro opere. Ed invece, oggi, non dobbiamo più attendere l’assalto di nessuno perché i barbari siamo noi, con le nostre camicie stirate e le scarpe lucide. Siamo una specie nuova, che ancora i libri non hanno raccontato. Siamo statici spettatori del nostro futuro, ci lamentiamo e non riusciamo a liberarci dalla nostra vecchia rozzezza. Quando non ci vede nessuno normalmente distruggiamo qualcosa. Per di più, amiamo usare espressioni frequenti nei discorsi o negli articoli, come “eravamo la Magna Grecia” oppure “lo dobbiamo alle nuove generazioni”. Proprio mentre il vuoto si sostituisce ai segni della presenza umana ed un mondo si spegne, inesorabilmente, senza aver dato un senso alle sue cose.
DOMENICO STRANIERI