Chi come me ha fatto le scuole elementari alla fine degli anni ’50 converrà che l’idea di eroismo che vigeva a quei tempi era essenzialmente legata a singoli gesti di singoli personaggi.
Gesti che andavano oltre l’istinto di sopravvivenza e dettati quasi sempre dall’esaltazione causata dal mood del momento e da ammonimenti e da condizionamenti radicatisi col tempo nelle società da sempre abituate alle guerre.
Il concetto di eroismo affermava il sacrificio estremo il quale, sebbene nella maggior parte delle volte non procurasse una utilità effettiva, doveva, tuttavia, avere una nota immaginifica ed essere l’iperbole del valore fine a se stesso.
Nella cultura giapponese, per altri verso, veniva considerato eroico l’harakiri dei samurai al quale si omologò il grande scrittore e ideologo Yukio Mishima.
Non era sempre e comunque il “chi per la Patria muor vissuto è assai” ma, anche e piuttosto, la sottomissione ai canoni estetici di un comportamento che lasciasse un’impronta nell’immaginario collettivo.
Un esempio per tutti D’Annunzio che violò i cieli della Vienna asburgica per lanciare manifestini nei quali tra le altre cose era scritto: -. . . non siamo venuti che per la gioia dell’arditezza. . .-
Va da sé che un’epopea di questo tipo faccia passare in secondo piano altri eroismi che non sono da meno ma che, anzi, sortiscono effetti molto più concreti.
Mi riferisco a Rosa Parks, la signora afroamericana che, nel 1955 nello stato del Mississippi segregazionista, su un bus si rifiutò di cedere il posto a un bianco.
Oppure all’uomo tuttora senza nome che in piazza Tienanmen a Pechino nel 1989, per impedire che avanzasse, si mise davanti a una colonna di carri armati intervenuti per sedare una rivolta di persone che chiedevano maggiore libertà e democrazia.
A questi ormai entrati nella Storia, oggi si sostituiscono quelli delle giovani e dei giovani iraniani e afgani che nei loro Paesi manifestano per sovvertire quei regimi improntati all’osservanza dei precetti dell’Islam radicale che impediscono loro di vivere al passo con la civiltà del terzo millennio.
Masha Amini, la giovane iraniana morta per le percosse della polizia religiosa per avere indossato l’hijab in modo improprio, i calciatori della nazionale iraniana di calcio che ai mondiali in Qatar non hanno cantato l’inno del loro Paese pur coscienti della sorte che li avrebbe attesi al loro rientro, la giovane pallavolista afgana Shaima Rezayee condannata a morte per avere voluto giocare senza indossare il velo, la giovanissima iraniana maestra internazionale di scacchi che a soli 18 anni, Sara Khadim al-Sharia, ai campionati mondiali femminili di scacchi che si stanno svolgendo in Kazakistan si è presentata anch’essa a viso scoperto, sono gli esempi di un eroismo ben più consapevole e utile della stampella lanciata da Enrico Toti contro l’esercito austriaco durante la Grande Guerra.
Sono episodi capaci di sgretolare il muro della sopraffazione e dell’indifferenza, di aprire nuove frontiere di civiltà, di mobilitare le coscienze e gli animi, di sovvertire i canoni di un pensiero globalizzato che raggiunge vette di eroismo solo quando c’è da digitare su una tastiera.
Sergio Salomone
nella foto sotto la campionessa di scacchi iraniana Sara Khadim al-Shari