Il ministro alla Pubblica Istruzione, o al Merito o come diamine di chiama adesso, ha emanato una circolare che vieta agli alunni di tutte le scuole, anche gli asili, di portare in classe il cellulare.
Alleluia!
A onor del vero, il divieto esisteva già dal 2007 ma, per una serie di “pizzi ‘i timpa” presi ora da questo, ora da quello, -la solita storia italiana, insomma, per la quale si fa ricorso a ogni bizantinismo pur di incasinare le cose semplici, magari spostando solo una virgola- c’è voluto più di un pronunciamento in Aule varie prima che divenisse ilinoppugnabilmente esecutivo.
‘Trattasi” hanno detto i giudici “di strumenti di distrazione propria e altrui il cui uso rappresenta una mancanza di rispetto nei confronti degli insegnanti ai quali è prioritario restituire autorevolezza”.
A brevissimo, dunque, gli studenti italiani, obtorto collo, prima di entrare in aula dovranno depositare i loro smartphone, tablet e/o qualunque altra analoga diavoleria elettronica in contenitori appositi da dove potranno riprenderli solo alla fine delle lezioni o nel caso in cui, a giudizio dell’insegnante, possano essere di supporto alla didattica.
Alleluia due volte.
Non sono un bigotto che guarda con nostalgia ai tempi andati.
Ho imparato, semmai, a fare di necessità virtù.
Per cui il mio entusiasmo in merito a questa vicenda deriva più dalla condivisione della ratio che individua nei cellulari una causa di distrazione -attaccati come sono i giovani a uno strumento divenuto ormai vera e propria appendice (per non dire escrescenza) del loro corpo- che dalla volontà di riproporre un insieme di norme, tutte proibitive, che hanno caratterizzato la scuola dei miei tempi nella quale anche solo l’essere sorpreso a giocare a tris con il compagno di banco comportava la fucilazione sul posto.
Presentemente i giovani virgulti millennial possono permettersi, invece, di filmarsi mentre tastano il sedere alla prof che per paura non reagisce, o mentre ridicolizzano il malcapitato prof incapace di fronteggiarli.
Quando non lo apostrofano e minacciano o non lo prendono a sberle.
Tutto accaduto.
E a me questo non pare sia il prezzo da pagare al progresso.
Non agogno il ritorno al grembiulino nero col fiocchetto azzurro delle mie elementari pur ritenendo, tuttavia, un segno di distinzione la divisa scolastica come nei collegel inglesi, ma meno ancora mi sento di difendere le giovani, minorenni o maggiorenni che siano, le quali si presentano in classe agghindate á la page (in pratica scosciate e seminude) tanto fa far dire -molto maldestramente e al punto da venire sospeso dall’incarico- all’insegnante di turno che a quel modo ci si veste solo per stare davanti a un copertone acceso al bordo di una strada malfamata.
Al di là di faziose divisioni ideologiche, dunque, credo che dovremmo tutti guardare con speranza a questo primo passo di un nuovo corso che, se alla forma farà seguito la sostanza, ha buone possibilità di riportare la Scuola italiana in una dimensione più consona alle sue tradizioni.
Lo dobbiamo ai nostri figli e nipoti.
Io solo ai nipoti.
Sergio Salomone