Quando ai bambini viene fatta la domanda “cosa vorrai fare da grande” le risposte sono le più diversificate e, talvolta, sorprendenti.
Prima degli anni ’80 pensare che un bambino rispondesse “l’astronauta” sarebbe stata fantascienza.
Ormai, invece, è diventata una scelta tra le più normali come voler fare il Valentino Rossi o il Ronaldo o la Milly Carlucci.
Altra cosa rispetto a quando il sogno era diventare carabiniere o Capitan Miky o capo stazione.
Le ultime due facevano parte delle mie aspettative e mi sento fortunato per avere realizzato l’ultima grazie a chissà quale insolito allineamento di pianeti.
Per quarant’anni ho indossato con orgoglio quella divisa senza, tuttavia, rinunciare ogni giorno a cercare di cambiare -nel mio piccolo e pagandone l’ardire in termini di carriera- le piccole incongruenze, fino alla metà degli anni ’90, e, da lì in avanti, le storture che hanno stravolto le FF SS prima, l’Azienda Autonoma FS poi e, infine, la FS SpA.
C’è stato un momento in particolate a cavallo del passaggio dal vecchio al nuovo millennio in cui, se non avessi osservato da dentro le “novità creative” che venivano introdotte giusto e solo per il gusto di cambiare e senza la visione di un quadro aziendale di insieme che le giustificasse, avrei faticato a credere che davvero quelle innovazioni stessero realizzandosi.
E tante volte, anticipando di parecchio la battuta di Checco Zalone “. . . ma è del mestiere questa?” e il contenuto del meme nel quale un redivivo Massimo Troisi domanda a Matteo Salvini “. . . ma che facive primm’e fa’ ‘o scieme?”, mi sono posto le stesse domande.
Ci sono nelle società tre campi dei quali lo Stato non potrebbe e non dovrebbe mai disinteressarsi.
Nell’ordine: l’istruzione, la sanità e i trasporti.
Fanno parte dei cosiddetti servizi che devono essere prestati ai cittadini e nell’ambito dei quali non è pensabile che su di questi si possa guadagnare o, quantomeno, uscire in pari.
Eppure, con il servizio ferroviario l’all-in rilanciato dallo Stato per chiamarsi fuori è riuscito e così il “rapporto costi-ricavi” è diventato preminente rispetto alle necessità della collettività.
Tagli indiscriminati ai rami fatti accortamente “seccare” attraverso concessioni indiscriminate (e, forse, incriminabili) a gestori del trasporto su gomma, riduzione del personale, dismissione del trasporto merci (a carro e in piccole partite), chiusura degli impianti e drastica riduzione, soprattutto al Sud, del servizio locale sostituito, udite udite, da un aleatorio e altisonante “servizio metropolitano di superficie” che sulla tratta jonica -a un solo binario e non elettrificata- è pressoché inesistente.
Con un solo Inter City giornaliero da Reggio Calabria a Taranto e ritorno e senza treni della lunga percorrenza per Milano, Torino e Roma che prima risolvevano i problemi di una zona popolosa e endemicamente sottosviluppata che adesso è costretta a recarsi alla stazione di Rosarno con bus e navette varie di imprese private che prosperano sui disagi creati dall’insipienza di una gestione cieca.
Per non fare peccato e avere ragione, parafrasando Andreotti, qualora ci spingessimo a pensare che sia clientelare.
E, poiché, se Atene piange, Sparta non ride, stamattina 14 dicembre 2022, mi è toccato sperimentare ulteriormente gli effetti di tanta “species sine cerebro”.
Stazione FS di Albano Laziale: pioggia torrenziale, no pensilina, sala d’attesa chiusa con apposito catenaccio, treno per Roma Termini fermo in primo binario con porte chiuse in atto di fare, immagino dai rumori di tubi che sfiatano, la prova freno.
Risultato: Fidel, il mio cane, e io siamo zuppi. L’uomo in ammollo di una vecchia pubblicità al nostro confronto è un disidratato.
E, poiché piove sempre sul bagnato (mai frase fu più appropriata), alla stazione di Roma Termini, in attesa di prendere il Frecciarossa per tornare a casetta, apprendo che RFI ha chiuso finanche le sale d’attesa.
Pensate che sia incazzato nero?
Per niente.
Sono contento. Contento di essere andato in pensione prima che qualcuno abbia potuto mandarmi a fare in culo.mentre prestavo servizio.
E, credetemi, non è poco.
Sergio Salomone