A cavallo tra la fine degli anni ’80 e i primi dei ’90 fecero la loro apparizione nei nostri borghi costieri i primi migranti provenienti dai Paesi nordafricani e subsahariani.
Sull’argomento credo di potere essere senza discussioni una fonte attendibilissima: si sa, le stazioni ferroviarie sono per loro stessa natura un punto di osservazione privilegiato di certi accadimenti.

Ricordo come fosse ieri la notte in cui vidi uno di loro per la prima volta.
Un giovane senegalese alto e robusto che dormiva su una delle panchine di legno della sala d’attesa.
Parlava un francese approssimativo con la caratteristica -che nel tempo notai essere tipica di quelle popolazioni- di pronunciare le consonanti dentali con l’unico suono “tr”.
Un po’ come i brasiliani per i quali la D diventa G.
Lo invitai a venire in ufficio e andai a casa distante poche decine di metri a prendergli qualcosa da mettere sotto i denti mentre il deviatore in servizio con me metteva altra legna nella stufa.
Disse di chiamarsi Serigne Dihacumpa.
Alle cinque meno un quarto, appena passato il diretto proveniente da Bari, andammo a prendere il caffè al Miramare.
Serigne diventò negli anni una presenza costante: era discreto, parlava in maniera pacata, sorrideva in continuazione scoprendo i grandi denti giallastri e le gengive iperemiche.
Col tempo riuscì a “mettersi in affari” vendendo gli oggetti che faceva arrivare in Italia dal Paese d’origine esponendoli su una bancarella di fronte a casa dove abitavo sul lungomare per illuminare la quale gli fornivo la corrente.
Mi aveva chiesto un prestito di un milione (allora c’erano le lire) per i primi acquisti di quelle chincaglierie e, per poterglielo fare mi feci io prestare i soldi da mio fratello.
Me lo restituí a distanza di qualche tempo.
Un giorno bussò al portone in un’ora insolita: era morto nel villaggio dove abitava il vecchio padre e lui veniva ad avvisarmi che sarebbe stato assente per un po’ di tempo.
Ne fui dispiaciuto ma Serigne mi rispose serenamente: -Allah si è ricordato di me.-
Di fronte alla mia sorpresa mi spiegò che per la sua fede quello era un segno del fatto che Dio gli aveva dedicato la sua attenzione. Che era preferibile, per quanto doloroso, al non essere nella sua mente.
Serigne tornò dopo qualche mese e mi comunicò che con un amico aveva messo su a Brescia un commercio di parti di auto usate con il Senegal e che, “inshallah”, una volta o l’altra ci saremmo incontrati di nuovo.
Non ho più visto Serigne.

L’altro ieri, però, ho ricevuto una cartolina con la veduta di una spiaggia di Dakar
Nello spazio per il messaggio c’era solo la firma “Serigne”. Niente altro.
A che sarebbe servito sprecare inchiostro?
Serigne si era ricordato di me.

Sergio Salomone