R. e P.

Ripercorriamo la via fino al santuario e, dopo una sosta sui gradini ombreggiati della piazza per un pranzo veloce, ci avviciniamo al portale dell’ingresso laterale. Qui Correale riesce ad esprimere, attraverso il bronzo, una vasta gamma di tonalità emotive: nell’Annunciazione i lineamenti dell’angelo, il profilo elegante delle sue ali, suggeriscono un’atmosfera di rarefatta spiritualità, mentre le fisionomie dei volti rivelano tutto il coinvolgimento psicologico dei personaggi e la straordinaria cura per il dato naturalistico si traduce, nei medaglioni ai lati dei riquadri centrali, nella scelta di soggetti tratti dal mondo animale, vividamente scolpiti ed empaticamente coinvolti nell’esperienza umana del sacro. La materia palpita di vita, circola in essa un unico respiro, un’ energia cosmica che armonizza e fonde gli elementi della creazione.

Usciamo dalla chiesa per comprare dell’acqua, ma quando ci apprestiamo a rientrare dal portale centrale, una fila di moto da cross, in posa per una foto davanti alla facciata, ci impedisce il passaggio; quando  sgombra il campo, lo fa con un rombo di motore che stride con la mia personale concezione del sacro e del rito. Ma sto imparando a convivere con le peculiarità di Polsi e con le sue contraddizioni.

Sul portale centrale sono effigiati episodi emblematici della vita del santuario: il leggendario miracolo del figlio del principe di Carafa, tornato in vita per intercessione della Madonna; la Peregrinatio Mariae, con la statua della Vergine assisa in trono portata in osannante processione dalla folla festante; il vescovo Atanasio Chalkeopulos nell’atto di benedire i fedeli. Fu lui a decretare il passaggio di Polsi dal rito greco-bizantino a quello latino, nel 1483, e il santuario fu costruito proprio su un’antica chiesa basiliana intorno all’XI secolo. Sui volti scarni dei monaci qui scolpiti, sui loro esili corpi ripiegati in raccolta preghiera, si effonde tutto l’ascetismo di antica origine, ormai dimenticato.

Ci decidiamo ad entrare; la chiesa ora è decisamente meno gremita, c’è posto sulle panche e ognuno si siede istintivamente in un luogo diverso, per un momento di raccoglimento. La mente naufraga in un cortocircuito di percezioni, di emozioni contrastanti: silenzio e clamore, odor di resina e puzza di benzina, fede e superstizione, devozione cristiana e riti paganeggianti…le dissonanze si armonizzano, i loro contorni sfumano, disfacendosi sotto il peso di una stanchezza dilagante e commossa.

Ci alziamo, ma prima di uscire, rivolgo un ultimo sguardo all’altare, a quella statua tanto venerata, per un intimo, ultimo colloquio dell’anima con lei. Non sono avvezza a sgranare rosari, a recitare sequele di fredde avemaria, gusci raffinati di forma quanto vuoti di sostanza; amo la preghiera che scaturisce dal silenzio, che fa affiorare verità sepolte, scampoli di ricordi, frammenti di poesia. Inizio così, senza accorgermene, un muto dialogo con la statua, che sembra fissarmi, e la mia, più che richiesta di esaudimento è domanda di senso. Eppure, una grazia la devo chiedere anch’io. Non per me, ma per una giovane vita che un male ha devastato, tuttavia non prostrato, che nella sofferenza continua a combattere e a cercare risposte; per un’amica speciale, conosciuta casualmente, “perduta” per anni e risentita solo ieri, dopo lungo silenzio. Anche questo un segno, io credo.

A riportarmi alla realtà è la processione delle famiglie, che si succedono all’altare per l’annuale “foto di rito” con la statua sullo sfondo.

Ci avviciniamo anche noi, per ammirare l’altare bifronte. Sul retro, un intrico di rami spinosi incornicia la scena della Resurrezione, con il Messia circondato da figure stupefatte di angeli e uomini. Sul davanti, una nicchia a conchiglia ospita una natività insolita: al centro, al posto del bimbo, il Risorto, annuncio di un’attesa che già si realizza, anticipazione di un compimento che attraversa la morte per vincerla e farla ascendere con Lui. Qui Correale si fa davvero profeta: intravede e disvela, con straordinaria capacità visionaria e intuizione artistica, un futuro che il presente nasconde, ma che pure in sé già contiene.

E’ quasi ora di tornare; resta il tempo per un’ultima una tappa al museo adiacente alla Chiesa. Colpiscono qui i numerosissimi ex voto effigianti piccoli organi “risanati” dal “miracolo polsiano”; e ancora piviali, ostensori, arredi sacri di vario genere, alcune significative opere pittoriche di area meridionale; perfino un bassorilievo con la crocifissione di Cristo di G. Ieraci, scultore calabrese di metà ‘800 che rivela molte assonanze con l’opera di Correale. Ma è davanti al busto bronzeo di Giiosafatta Trimboli che ci soffermiamo più a lungo.

-Lo ha scolpito quando era già sulla sedia a rotelle…-Commentano i familiari commossi.

Una dedizione tenace alla propria arte, motivata anche dal profondo affetto che Peppe nutrì per quest’amicizia sincera e duratura.

-Spesso veniva a casa a trovarlo: li chiamavamo “le ciminiere”…fumavano e discorrevano per ore nel suo laboratorio-

Da chi lo conobbe apprendo che un’altro ecclesiastico si contese con Trimboli un posto speciale nel cuore dello scultore: fu don Giulio Facibene, rettore del collegio della Madonnina del Grappa, presso cui il giovane artista trovò accoglienza e sostegno a Firenze, assieme a diversi altri ragazzi , indigenti o orfani, “raccolti”, educati e guidati nella costruzione del proprio futuro. Una figura straordinaria, che riuscì a dare effettiva possibilità di riscatto sociale ai più capaci e meritevoli, “anche se privi di mezzi”: dall’istituto uscirono medici, avvocati, letterati, giornalisti, ma soprattutto uomini di notevole statura morale; uomini che, rimasti in rapporti di stretta amicizia, seppero sostenersi a vicenda nel corso delle proprie esistenze. Fu tramite questi amici che Correale ricevette, negli ultimi anni, una committenza a lui particolarmente cara: l’effigie di un  medaglione con il volto del defunto rettore, ricordo imperituro del legame degli allievi con il loro benefattore.

Nell’avviarci ai cancelli d’uscita, incrocio e interrogo due coraggiosi pellegrini partiti da Natile la notte precedente; il marito ha fatto la metà delle sei ore totali di cammino a piedi scalzi, ed è risoluto a venire a Polsi ogni anno, “fino all’ultimo respiro”.

-Quindi lei crede nella vita dopo la morte…Invidio la sua fede, sa?- Commento ammirata. Vorrei  potermi abbandonare anch’io con questa cieca fiducia.

-No che non ci credo! Siamo nati per soffrire e siamo fatti solo per questa vita-

-E allora perché venire qui? Non ne capisco il senso!-

-Ecco, ti faccio un esempio: se tu chiedi alla Madonna, “Madonna mia fammi la grazia che mi guarisca il dito”, e lei ti esaudisce, allora per voto devi per forza venire…Fino alla fine della vita uno viene-

Assurdo. Eppure, da questa Fede paradossale e contraddittoria, da questo estremo e tenace attaccamento al rito, trapelano un anelito d’infinito, una sofferente ricerca di senso, un tormento interiore che trova nel “miracolo”, una sua forma di pacificazione: forse, nella grazia ricevuta, questi uomini avvertono la presenza di qualcosa, di qualcuno che non li lascia a combattere da soli.

Nell’attesa che arrivi l’autista, condivido con alcuni le foto scattate alla Via Crucis.

-Che opere magnifiche, dove le possiamo vedere? Sono qui in Calabria?- Mi domandano.

-Ma si trovano a Polsi! E’ la via Crucis di Correale, poco sopra il santuario-

-Ma noi veniamo da vent’anni e non ne sapevamo nulla!-

Imperdonabile ignoranza? Certamente sì, ma quell’ignoranza, fino a pochi giorni fa, era anche la mia. Forse, allora, varrebbe la pena che qualcuno ricordasse più spesso ai pellegrini la presenza di tali tesori: magari il sacerdote stesso, proprio da quel pulpito gremito di fedeli da cui conciona ad ogni funzione; o da quell’altare che Correale scolpì così sapientemente e originalmente nel bronzo. E non solo in occasione della festa del due settembre. E non guasterebbero alcuni pannelli esplicativi, qualche indicazione, qualche visita guidata in più: perchè abbandonare all’oblio tessere preziose del nostro passato e gioielli artistici di immenso valore?

Nel frattempo arriva l’autista e si riprende la via del ritorno.

E mentre ripercorriamo la strada sconnessa, tutta buchi e avvallamenti, mentre rivedo la teoria di tronchi screziati d’argento e di verde, nel torpore della stanchezza in cui a tratti mi smarrisco, considero tra me e me che la Madonna probabilmente gradirebbe gesti meno eclatanti e più eroici: volontari che ripuliscano dalla spazzatura o che rendano i servizi igienici degni di questo luogo; meno ginocchia sbucciate, meno vesciche ai piedi, meno capre sgozzate e più impegno concreto per il bene comune, più senso civico. Certo, il flusso deve essere biunivoco, le istituzioni hanno il dovere di mantenere le promesse, offrendo sostegni concreti; ma, quand’anche esse si mostrino sorde, si faccia avanti il popolo, dando per primo l’esempio e cercando di dare visibilità all’esempio. Non stancandosi mai di chiedere e di agire, vincendo il pericoloso, inerte fatalismo che rischia di intorpidire le coscienze. Battersi sempre e ancora.

Perché, davvero, “undi u populu non parra, u previti si marita”.

(fine).

Livia Archinà