R. e P.
Davanti alla facciata corrono in salita due strade parallele, la più prossima delle quali è fiancheggiata, sulla sinistra, dagli alloggi per i pellegrini, a destra da edifici a più piani ospitanti il museo e direttamente comunicanti con la Chiesa. Sull’altro lato si apre la piazza, delimitata da un anfiteatro a gradoni, ombreggiato e gremito di pellegrini visibilmente assonnati.
-Da dove venite?
-Da Giffone. Indossano tutti la stessa maglietta, così come i fedeli di altre confraternite aspromontane; e assieme a loro, tanti “senza divisa”, stanchi ma sorridenti, felici di esserci, anche quest’anno.
Avanzo verso la porta laterale e resto esterrefatta: una folla si assiepa all’interno, con diverse bandiere in bella mostra; il vano riecheggia delle loro voci e quella vista, quel brusio rumoroso, mi soffocano. Decido così di tornare più tardi, dopo la messa, nella speranza che la calca vada scemando.
Tanto più che, se ho una speranza di ritrovare i miei quattro compagni, so che può essere soltanto alla Via Crucis. In fondo è per questo che siamo venuti: per rivederne le quattordici lastre e il Cristo risorto in bronzo, assieme ai portali della chiesa e alla base dell’altare bifronte. Ma certi particolari non li conoscono tutti; io stessa, fino a poco tempo prima, ignoravo l’esistenza di un artista sidernese di nome Giuseppe Correale.
-Prosegua su per la salita, signorina-
Proseguo, ma sulla sinistra un’immagine mi ghiaccia il sangue: un ammasso di spazzatura come nelle peggiori discariche abusive, in mezzo alla quale troneggia la testa di una bestia macellata. Salgo, inorridita, lasciandomela alle spalle.
Li incrocio mentre scendono.
-Già vista la Via Crucis?-
-No, l’ingresso è più sotto-
Inverto la direzione; insieme raggiungiamo un cancello semichiuso a destra della strada ed entriamo, proseguendo per la via sinuosa che si dipana su, su fino alla cima, ripercorrendo le varie tappe scandite dalle lastre bronzee, inserite in parallelepipedi di pietra. Sotto a ciascuna il nome dei committenti: confraternite di vari paesi, più raramente facoltosi privati. Ben conservata la maggior parte, mentre qualcuna, un po’ rovinata dalle intemperie, necessiterebbe di una pulitura.
“Ma questo è il bello del bronzo: è eterno, torna vivo facilmente e la patina stessa, a contatto con l’aria, assume tonalità suggestive”. Così commentano gli altri, visibilmente commossi, riconoscendo ora il volto di un prete di Polsi, ora quello di un parente, ora il profilo, le gambe di un amico fraterno dell’artista, che ricorreva sovente a conoscenti e familiari per i propri modelli.
Mi soffermo sulla scena del Cristo inchiodato al legno, di straordinario impatto emotivo, con la croce ancora deposta a terra che giganteggia dolorosa in primo piano; a sinistra un soldato, con plastica torsione del busto, solleva indietro il braccio brandendo il martello; sul lato opposto una guardia reca tra le mani la tavoletta con la scritta INRI; dietro di lui, tutta la sofferenza raccolta di San Giovanni e della Madonna.
Nella deposizione del sepolcro, a dominare in primo piano è invece un corpo ormai inerte, col capo reclinato all’indietro, adagiato su un lenzuolo i cui lembi sono sorretti da un tenue gioco di mani; in posizione leggermente arretrata ma centrale, San Giovanni tiene il polso di Cristo; accanto a lui la Madonna, col volto nascosto nel buio del manto.
Nei riquadri della Via Crucis, a impressionare, oltre alla plasticità dei corpi, sono soprattutto le fisionomie dei volti: volti compresi di dolore, commozione, raccoglimento di fronte al Cristo prostrato a terra, nelle scene delle tre cadute; volti contratti, dalle bocche semidischiuse, nelle donne coi bimbi al collo e le braccia protese verso di Lui che avanza, consolandole, lungo la via del Calvario.
Salendo, nell’ammirare le scene, ripercorriamo alcuni momenti salienti della vita e delle opere dell’artista, così come affiorano dai ricordo spontaneo di chi lo ebbe caro: a partire dal trasferimento a Firenze, dopo la sua “scoperta” da parte di padre Bologni.
-Scolpì solo opere bronzee e lignee?- Domando, conscia e vergognosa della mia ignoranza.
-No, diverse anche in marmo di Carrara; alcune, molto belle, sono conservate nel laboratorio a Siderno e incarnano le sue tematiche preferite: le ballerine, la maternità, il mondo povero di contadini e pescatori. C’è perfino un gigantesco busto di Dante, originariamente collocato in un palazzo a Riace. Ti faremo venire per una visita, se ti fa piacere-
Accetto, felice e riconoscente; le opere di Correale esercitano su di me un fascino inspiegabile; le trovo così vivide e realistiche, come se possedessero un’anima. Forse anche per la portata universale delle tematiche trattate, che trascendono la dimensione regionalistica, incarnandosi in figure archetipiche, nutrite di un respiro e di un’esperienza cosmopolita. Un solo artista, ma diverse anime, diverse vite: i primi diciotto anni trascorsi in Calabria, i successivi dieci a Firenze; una permanenza ventennale a New York (dagli anni ’50 ai primi anni ’70), ove continuò gli studi artistici e conobbe la futura moglie, Mary Josephine Proto, da cui ebbe i tre figli; infine nel 1972, il ritorno alla terra madre, ad una Calabria dove tutto inizia e finisce come un anello che si chiude. Dall’Italia all’America all’Italia, come molti migranti suoi contemporanei.
A Siderno costruisce la propria casa, qui nasceranno e vivranno i figli, qui riannoda i legami con le proprie radici. Ma sarà sempre, in fondo, un “deracinè”, sradicato e radicato nello stesso tempo; i viaggi, le esperienze, l’aprirsi di nuove prospettive ti cambiano e il ritorno, avvertito come una necessità, fu scelta consapevole ma controversa; perchè è difficile rientrare in scarpe non più tue, reindossare i vecchi vestiti, ritornare, dopo una parabola esistenziale di così ampio respiro, in seno ad una mentalità pur sempre chiusa, fatalista, a tratti rassegnata; pesante fardello che tarpa le ali e impedisce di evolvere. A molti, ma non a lui, che nel silenzio del suo laboratorio trova l’ispirazione per scolpire decine e decine di opere; perchè, se a New York può dedicarsi a un’attività prettamente commerciale, per quanto remunerativa, in Calabria “il maestro Correale” diviene libero di esprimere tutta la propria vena artistica.
E lo scultore non andò più via, legato da un amore viscerale a questa terra e ai suoi concittadini. Un artista con una casa “aperta al mondo”; scultore di volti umani e persona dal volto umano, pronto a dare una parola di conforto, un consiglio, un piccolo aiuto materiale a chi gliene manifestasse il bisogno, con un senso della religione non ritualistico ma concreto, “agito” nel quotidiano. E una passione per la propria arte, per un lavoro cui continuò a dedicarsi fino all’ultimo, anche nella malattia.
Procediamo lungo la serpentina della strada, ma parlando abbiamo ormai perso il conto delle stazioni, smarrito il filo del cammino, per tener dietro a quello, irregolare e intermittente, dei ricordi e della memoria. Forse per questo è così spiazzante l’impatto con il Cristo risorto, con la sua immagine che affiora improvvisa alla nostra vista, già qualche tornante prima di essere raggiunta, occhieggiante tra le curve e la vegetazione, con le braccia aperte spiegate in alto, a segnare la via, promessa di rinascita, certezza di salvezza; quel Cristo che ti accoglie, stagliandosi sullo sfondo verdeggiante di fronzuti castagni, e volge i suoi occhi a cercare quelli del visitatore, quasi per dirigerne lo sguardo, per indicargli uno spiraglio di trascendenza, per dare una speranza di rinascita ad una terra tristemente martoriata.
Un’ opera classica e moderna a un tempo, in cui un dinamismo ascensionale dal basso si irradia per tutto il corpo in un movimento a spirale, animando il drappo intorno ai fianchi, le estremità delle mani, le ciocche dei capelli.
Promana un’aura di mistica sospensione del tempo e dello spazio; da lassù il clamore, le voci dei fedeli si percepiscono distanti, come ovattati, nulla più che una lontana eco soffusa. Difficile andare via: qui si smarrisce la cognizione del tempo.
Ma la realtà ci richiama a sé: facciamo ritorno al santuario, distaccandoci, a malincuore, dalla contemplazione di una tale struggente bellezza.
(fine seconda parte)
Livia Archinà