Una rete estorsiva estesa e capillare, condotta con metodo mafioso ai danni di commercianti e imprenditori del territorio. È questo il profilo operativo che emerge in maniera netta dalla sentenza della Corte d’Appello di Reggio Calabria nel processo di secondo grado scaturito dall’inchiesta “Riscatto – Mille e una notte”, che nel 2019 aveva portato alla luce gli affari illeciti del clan Cordì, imperante nel territorio di Locri.

Secondo i giudici, «nessuno degli atti di impugnazione» presentati nel processo ha minato il «granitico quadro probatorio» a carico degli imputati. Un contesto mafioso ben strutturato, in cui la cosca Cordì si è dimostrata capace di mantenere un controllo del territorio attraverso una strategia intimidatoria efficace, rafforzata anche dalla disponibilità e dall’uso potenziale di armi.

L’inchiesta e il processo

Coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, l’indagine del 2019 ha svelato un monopolio mafioso sui servizi cimiteriali di Locri: dalla gestione dei funerali alla vendita dei fiori, fino alle opere edili sulle tombe e al trasporto delle salme. Secondo gli inquirenti, tutte le attività erano gestite dal clan con modalità illecite e attraverso il sistematico ricorso alla forza intimidatrice.

In primo grado il Tribunale di Locri aveva condannato nove imputati. La sentenza d’appello, emessa nell’ottobre 2024, ha confermato il quadro accusatorio ma ha portato a quattro assoluzioni, quattro pene rideterminate e una condanna confermata.

Il controllo mafioso del territorio

Nelle motivazioni della sentenza, i giudici descrivono il clan Cordì come «imperante nel territorio di Locri», con una «concreta capacità di intimidazione e di assoggettamento della collettività». Un potere radicato, confermato anche dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, considerate coerenti e riscontrate oggettivamente.

Il processo ha evidenziato anche la storica contrapposizione tra le famiglie Cordì e Cataldo, da anni protagoniste della criminalità organizzata locrese.

Le attività estorsive, condotte con metodo mafioso, erano rivolte sistematicamente contro il tessuto economico del territorio, con l’obiettivo di mantenere il controllo e alimentare il potere criminale del gruppo.

Una «compagine criminale – si legge nella sentenza – dotata di armi e pronta a farne uso per rafforzare la propria azione intimidatoria», frutto di un’organizzazione radicata e ancora operativa, nonostante le condanne già inflitte.

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