La “guerra” tra vecchi patriarchi e giovani ‘ndranghetisti prima della nascita della Santa. La sottovalutazione del fenomeno quando «Riina e Provenzano andavano a incontrare don Stilo». L’esercito di affiliati nel Reggino. Ecco l’audizione del procuratore in Commissione antimafia. Ma solo 17 minuti su 80 sono “pubblici”
Partiamo dal dato cronologico: l’audizione di Nicola Gratteri in Commissione parlamentare antimafia è durata 80 minuti (dalle 14,20 alle 15,40 del 22 febbraio scorso), dei quali soltanto 17 sono “pubblici”. Molte cose, i parlamentari e il procuratore della Repubblica di Catanzaro le hanno approfondite in segreto, a microfoni spenti.
In quello che è possibile ascoltare, però, il magistrato non ha certo lesinato osservazioni e fatti. Con un leitmotiv: la sottovalutazione «colpevole» del pericolo rappresentato dalla ‘ndrangheta. Un dato storico, suffragato da fatti precisi. Non sono soltanto aneddoti, sono accuse all’atteggiamento tenuto «nei decenni passati da magistratura, forze dell’ordine, politica e anche dal legislatore».
È uno dei riti di passaggio nella storia dei clan a offrire lo spunto a Gratteri. Che racconta ai commissari come (e perché) la ‘ndrangheta abbia deciso di muoversi verso la massoneria deviata. «Sul piano giudiziario – dice – possiamo fissare la creazione della Santa nel 1970; prima di quella data la dote più alta all’interno della ‘ndrangheta era lo sgarro». Siamo alla versione 1.0 della criminalità organizzata. Poi i 35enni e i 40enni di allora iniziano una discussione con i capi storici. Per il magistrato l’emblema di quei capi è «Antonio Macrì, di Siderno, che controllava tre quarti dell’università di Messina, per intenderci, che discuteva alla pari con Cosa nostra americana. Quando è morto, c’erano quasi 40 mila persone ai funerali. Venivano Totò Riina o Provenzano a incontrarlo, come Riina e Provenzano andavano a incontrare don Stilo ad Africo». Il punto è che a quei tempi, quando la ‘ndrangheta era misconosciuta, non solo se ne ignorava la potenza ma anche l’incipiente metamorfosi. «Quei 35enni, quei 40enni – spiega il procuratore – dicono: “Noi non possiamo stare più con questa ‘ndrangheta che si interessa di abigeato, di guardiania, di trasporto di inerti delle fiumare: noi dobbiamo contare di più”». Non è una questione di solo potere, soprattutto di denaro: «Qui – Gratteri continua a sintetizzare la dialettica interna ai clan – stanno arrivando i soldi dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, la Liquichimica di Saline joniche, la costruzione del porto di Gioia Tauro: noi dobbiamo contare di più».
Certi ragionamenti portano a frizioni pesanti, «perché i patriarchi della ‘ndrangheta come ‘Ntoni Macrì, don Mico Tripodo e Piromalli (poi Piromalli e si è convertito quando ha visto che incominciavano a morire questi patriarchi; si è convertito alla creazione alla Santa) non volevano perché pensavano si trattasse di un imbastardimento».
In realtà a loro conveniva lo status quo: «Avevano il potere assoluto, cioè la gente gli portava i soldi senza bisogno che glieli chiedessero, cioè pagavano spontaneamente la mazzetta per stare tranquilli. Alla fine, però, vincono i giovani perché cominciano a uccidere questi grandi patriarchi e creano la Santa».
C’è un dato, per così dire, tecnico che lega clan e massoneria: prima della nascita della Santa, ogni “dote” mafiosa aveva un santo di riferimento. «Da quel momento in poi – dice Gratteri – non ci sono più santi ma personaggi eccelsi del Risorgimento e cioè massoni: Mazzini, Garibaldi, Cavour». Il dato “politico”, però, è quello che permette di passare alla versione 2.0 dei clan: «I giovani dicono: “Dobbiamo entrare nella stanza dei bottoni, non dobbiamo più metterci d’accordo su chi deve vincere l’appalto ma decidere se deve essere costruita l’opera e dove deve essere costruita”, cioè entrare del potere decisionale della gestione della cosa pubblica. Entrare nella massoneria deviata voleva dire avere che fare con i quadri della pubblica amministrazione, avere che fare con medici ingegneri, avvocati».
E anche con qualche magistrato, secondo i racconti dei pentiti. Gratteri arriva al passaggio del suo intervento che ha avuto più risonanza: «Un collaboratore di giustizia, venti anni fa, in un verbale ha detto che all’orecchio del Gran Maestro (quindi conosciuti solo al Gran maestro) ci potevano essere in ogni loggia tre incappucciati e tra questi c’erano anche dei magistrati che potevano partecipare a queste riunioni».
Per gli ‘ndranghetisti, la massoneria coperta è la camera di compensazione ideale. Dà la possibilità di costruire rapporti privilegiati in spazi sociali altrimenti inaccessibili. Si apre un nuovo mondo e la struttura dei clan muta assieme alla “corsa” per entrare a far parte della ‘ndrangheta. Quelli snocciolati dal procuratore sono numeri monstre: «Pensate che solo in Provincia di Reggio Calabria ci sono almeno 170 locali di ‘ndrangheta, e ci sono locali di ‘ndrangheta di cento persone ma anche di 1.500 persone. In paesi ad alta densità mafiosa, paesi come Siderno, quando c’è stata la faida Comisso-Costa c’erano almeno 500 persone pronte a sparare e che poi hanno colpito anche in Canada».
Violenza e affari vanno di pari passo: «Nell’indagine “Saggezza” (sui clan della Locride, ndr) c’erano delle intercettazioni dove un capo locale – stiamo parlando dei paesi preaspromontani sopra Locri – e un gran maestro, di una loggia di Locri o di Siderno, interagivano e parlavano ed era chiaro» che entrambi sapevano con chi stavano parlando, che dall’altro capo del telefono non c’era «un cardiochirurgo col quale discutere dei massimi sistemi».
Gratteri aggiunge come nota a margine «pare che la provincia di Vibo sia quella a più alta densità massonica d’Italia», poi dice che «c’è come una corsa diventare massone come – cambiando l’ordine degli addendi – c’è una corsa a entrare nella ‘ndrangheta perché ancora alcuni lo ritengono conveniente, ritengono sia un modo per sistemarsi o per ottenere risposte che la politica non riesce a dare». E di certo «è un’utilità riuscire ad avere a che fare con i quadri della pubblica amministrazione, con gente potente che può istruire una pratica in modo più veloce o favorire in una nomina anziché nell’altra».
Le discussioni con i membri della Commissione, nella parte pubblica dell’audizione, sono limitate a un paio di osservazioni della presidente Rosy Bindi: «Procuratore – chiede la parlamentare del Pd – perché secondo lei, quando si parla di logge soppresse, le varie obbedienza massoniche non ammettono che questo è avvenuto per infiltrazioni della ‘ndrangheta ma si appellano a rituali?». Gratteri risponde con un esempio («così non si offenderà nessuno»): «Quando nella ‘ndrangheta qualcuno commette un errore, non per forza di cose la sanzione è la morte, quindi traslando alla massoneria se io so che se un massone sbaglia, se un massone commette un errore, non è che non è che si chiude la Loggia. Magari il massone verrà messo in sonno per tre mesi, quattro mesi, ma per logica se il “tempio” è stato chiuso sarà successo qualcosa di più grave rispetto a una violazione procedurale».
Siamo a uno dei nodi della contesa aperta tra la Commissione parlamentare antimafia e gli ordini massonici: la mancata denuncia pubblica di questi fatti, il volersi affidare a “processi” interni senza far emergere le criticità. È «la stessa logica di qualunque società segreta», chiosa Bindi. Poi si continua a microfoni spenti. Per più di un’ora.
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