La rivoluzione digitale ha cambiato il modo di comunicare di tutti, compreso quello delle mafie. Nel grande ecosistema digitale, i Social Network Sites (SNS) sono i vettori privilegiati di interazione e diffusione dei contenuti. Dai pizzini ai social network, anche le mafie si sono adeguate al mondo digitale. Oggi comunicano con post, video e tweet, usati per parlare tra clan, per lanciare messaggi di avvertimento, per dare istruzioni, ma anche per arruolare nuove leve con codici e linguaggi che sembrano appartenere a veri e propri influencer.
Nato dall’esigenza di capire per far capire, il primo rapporto delle mafie nell’era digitale cerca dunque di far luce – lo spiega bene il professore Antonio Nicaso che, in Canada, insegna queste cose ai massimi esperti americani di lotta al crimine organizzato – «sul coinvolgimento della Google Generation Criminale in tutte le opportunità offerte dalla rete. Non solo sulle comunicazioni criptate e sul dark web, dove conducono anche molti dei loro affari, ma anche sui social media in tutte le loro declinazioni».
Per lo studioso italoamericano «ogni organizzazione criminale oggi vive immersa nell’interrealtà, in quel mondo di mezzo sospeso tra reale e virtuale che rovescia ogni percezione di senso. L’analisi realizzata grazie a una massiccia raccolta di dati da Wikipedia e dai principali social network, YouTube, Facebook, Instagram, Twitter e TikTok, ha consentito di elaborare alcune tendenze che tracciano la partecipazione e l’intervento di mafiosi, affiliati e simpatizzanti nella sfera digitale».
Tradotto in parole più semplici vuol dire che Facebook, YouTube, Twitter, Instagram e TikTok, in quest’ordine, si sono impadroniti della rete, dei nostri computer e dei nostri smartphone, creando una dimensione osmotica che integra e spesso risponde a quanto avviene nel reale.
Le mafie, dunque, raccontano sé stesse e si (ri)specchiano nei post di denuncia dell’antimafia sociale: se gli esperti prima interpretavano il fenomeno organizzandone il racconto, ora si può assistere al reality show delle mafie semplicemente aprendo le nostre app e selezionando il flusso di contenuti suggeriti dagli algoritmi, o seguendo i trend virali degli hashtag o delle canzoni trap e neomelodiche. In tal senso, si è dimostrato quantomai necessario uno studio delle dinamiche performative dei mafiosi online.
È questo il dato di fondo che viene fuori dal rapporto “Le mafie nell’era digitale”, promosso dalla Fondazione Magna Grecia, e presentato questa mattina a Roma alla Camera dei deputati con un parterre dei massimi esperti del fenomeno mafioso in Italia e nel mondo: da Antonio Nicaso, giornalista, scrittore, studioso dei fenomeni criminali, docente alla Queen’s University Canada, a Marcello Ravveduto, docente all’Università degli Studi di Salerno e responsabile del progetto di ricerca “Le mafie nell’era digitale”, allo stesso Nicola Gratteri, Procuratore della Repubblica di Catanzaro e antesignano del tema avendo lui sperimentato, per primo in Italia, le prime intercettazioni digitali alla Procura di Reggio Calabria e le sperimentazioni più avanzate nel corso degli anni successivi, conoscitore dunque come nessun altro in Italia del mondo dell’intelligence applicato alla lotta alla mafia. A coordinare di lavori il giornalista Roberto Inciocchi, conduttore di “Fuori campo” in onda su Sky Tg24.
Un report che non mancherà di far discutere e di essere analizzato da quanti ogni giorno si confrontano con questo tema e che racconta il “fenomeno criminale” attraverso un’analisi di 90 GB di video TikTok, due milioni e mezzo di tweet, 20mila commenti a video YouTube e centinaia fra profili e pagine di Facebook e Instagram, «dai quali emergono – spiega il presidente della Fondazione Nino Foti – «le caratteristiche di un fenomeno che sembra affermarsi sempre di più in una mescolanza dai confini labili tra reale e virtuale».
Attraverso un approccio double talent, in grado cioè di coniugare conoscenze umanistiche e informatiche, la ricerca curata da Marcello Ravveduto «Le mafie nell’era digitale. Rappresentazione e immaginario della criminalità organizzata, da Wikipedia ai social media» – che ha dato vita all’omonimo rapporto – ha indagato la presenza, in termini di qualità e quantità, delle mafie sugli SNS.
«Consapevoli del ruolo rivestito dai contenuti digitali in quanto fonti primarie – spiega il prof. Marcello Ravveduto – si è agito sistematicamente adottando diversi tipi di metodi di ricerca per estrarre e analizzare una grande mole di dati dalle piattaforme. Da un iniziale metodo manuale per i social di proprietà di Meta, applicato a più di 50 profili, pagine e gruppi Facebook e più di 30 profili Instagram, si è passati a un’analisi semiautomatica per l’individuazione di temi e argomenti che sono stati infine trattati da un proficuo e innovativo metodo automatico: si è ricorso a codici Python che hanno permesso di processare 20mila commenti a video YouTube, 90 GB di video TikTok, per un totale 11.500 video e 2milioni e mezzo di tweet».
Ne emerge un immaginario digitale delle mafie che si alimenta in maniera circolare: i social sono lo specchio e il motore di aggiornamento costante (updatism) della cultura criminale mafiosa che risemantizza i vecchi immaginari costruendo consenso attraverso una bulimica creazione di contenuti. Come navigati influencer i rampolli delle mafie promuovono, attraverso la ridondanza del lusso, il successo del loro brand criminale.
La generazione Z dei clan e delle paranze sta cambiando il volto delle organizzazioni criminali mostrando quanto sia necessario saper gestire la scena digitale per ottenere consenso ed essere riconoscibili in quanto mafiosi all’interno di una società in cui informazione e consumi rendono tutti uguali.
Non a caso il procuratore Nicola Gratteri ha tenuto, ancora una volta, una delle sue solite lezioni magistrali sul ruolo fondamentale che la scienza informatica può dare oggi a chi come lui dà la caccia ai latitanti della ’Ndrangheta in tutto il mondo, ricordando anche – e sottolineando più volte – che nel paragone con altri sistemi giudiziari internazionali non sempre siamo i primi, «ma potremmo diventarlo se si investisse di più nella lotta al mondo organizzato del crimine, come fanno per esempio gli americani, un sistema che non condivido anche se più pragmatico del nostro, o come fanno ancora meglio gli israeliani che hanno capito meglio di tutti gli altri quanto il controllo della rete sia fondamentale per capire cosa si muove attorno a noi e come intervenire in tempo per evitare il peggio».
Nino Foti non ha dubbi: «Le mafie, i significati e i linguaggi ad esse correlati, hanno rappresentato e rappresentano una fonte inesauribile di contenuti che può essere, a seconda, oggetto di denuncia, strumento di consapevolezza, spazio di analisi e di ricerca, ma anche luogo ideale di identificazione, riconoscimento e celebrazione. Nasce proprio da questa consapevolezza l’urgenza di un report come il nostro».
Ma anche su questo Nicola Gratteri va giù pesante. Il Procuratore di Catanzaro spiega, infatti, che il tema è attualissimo «ma i dati legati al rapporto che intercorre tra il mondo organizzato del crimine e il mondo digitale è in perenne trasformazione e che, quindi, i dati di oggi tra sei mesi non saranno più utili. Da qui la necessità di riaggiornarli continuamente e si sottoporli ad analisi continue».
Questa importante ricerca, lo ricordiamo, si è avvalsa della collaborazione della Direzione investigativa antimafia e del suo direttore, Maurizio Vallone.La ricerca, realizzata nel pieno rispetto della privacy, alla fine ha dimostrato che l’utilizzo dei social network rendono trasparenti i processi di comunicazione delle mafie in cui “fan”, simpatizzanti promuovono il “brand” attraverso un’estetica del potere che esalta il lusso e l’onore, e quindi il successo dell’organizzazione anche attraverso il ricordo di chi ha dato la vita e di chi ha patito il carcere per giungere a questo risultato. Tutte cose che Nicola Gratteri aveva già anticipato dieci anni fa, quando per la prima volta si incominciava a parlare di queste cose.
Tutto regolare? «Non proprio – commenta il prof. Antonio Nicaso – che fa riferimento proprio ai giornali italiani, alle grandi testate e che proprio qualche giorno fa hanno sottovalutato e quasi ignorato una delle operazioni antimafia più poderose di questi anni, l’Operazione Eureka, 150 perquisizioni in otto Paesi europei, 100 arresti solo in Italia, senza dubbio della più grande operazione mai realizzata contro la mafia calabrese in Europa».
Gli investigatori – ricordiamo – hanno ricostruito anche i flussi di soldi riconducibili alle compravendite della droga che veniva gestita da organizzazioni composte da soggetti di nazionalità straniere, specializzati nel pick-up money, o da spalloni che spostavano denaro contante sul territorio europeo. Le movimentazioni hanno interessato Panama, Colombia, Brasile, Ecuador, Belgio e Olanda. Complessivamente l’inchiesta parla di circa 22 milioni e 300mila euro, sono le somme spostate con queste modalità. Soldi che in parte sarebbero stati reimpiegati nell’acquisto di auto e beni di lusso, nonché utilizzati per avviare e finanziare attività commerciali in Francia, Portogallo e Germania, ove venivano anche riciclati sfruttando attività di autolavaggio. Sequestri di società e beni e arresti sono stati eseguiti anche in Germania.
Coordinata dal capo della Direzione nazionale antimafia Giovanni Melillo, l’indagine “Eureka” si è sviluppata nell’ambito di due squadre investigative comuni: una intercorsa tra la Dda di Reggio Calabria diretta da Giovanni Bombardieri e le Procure tedesche di Monaco I, Coblenza, Saarbrücken e Düsseldorf; l’altra tra la Dda reggina, l’Ufficio del giudice istruttore del Tribunale di Limburg ed il Procuratore federale.
Ma forse proprio per questo il prof. Antonio Nicaso nella sua analisi non arretra di un solo millimetro: «I giornali stranieri hanno dedicato a questo blitz grandi titoli di testa, in Italia ci si è limitati invece ad ospitare delle note di cronaca nelle pagine regionali, come se l’operazione fosse minore rispetto a tante altre. Invece è un’operazione che ha visto impegnati in prima persona più di mille poliziotti in Germania e tremila in Italia, come ci hanno spiegato i portavoce, indicando che i raid hanno toccato anche «Spagna, Portogallo, Francia, Romania e Slovenia. Come se la mafia non interessasse più come prima».
Un monito per tutti, una lezione per noi cronisti, e soprattutto un appello al Paese: «Guai a mollare mai la lotta contro la piovra». Per il Paese, dunque, un evento davvero speciale quello di oggi alla Camera, da non trascurare e soprattutto da non sottovalutare». (giornalistitalia.it)
Pino Nano – https://www.giornalistitalia.it/