R. e P.

Si tiene in contrada Ropolà, poco sopra Gerace, il terzo appuntamento estivo con l’Archeoclub di Locri. Qui la presentazione del libro di Lina Furfaro, San Jeiunio compatrono di Gerace, ha offerto l’occasione per intrecciare aspetti storico-culturali, naturalistici e religiosi. Presenti all’evento anche le associazioni locali: L. Cusato, della Comunità Passo Zita, M. Larosa di Leggendo tra le righe, oltre a N. Monteleone dell’Archeoclub e a Rudi Lizzi, consigliere della Città Metropolitana di Reggio Calabria. Nel luogo del ritrovo, un appassionato A. Rocca, esperta guida ambientale, ha spiegato le peculiarità dell’ambiente geologico della Calabria, che, attaccata 23 milioni di anni fa alle Alpi Liguri e alla Francia, se ne è progressivamente distaccata con movimenti tettonici che hanno causato la metamorfizzazione delle sue rocce: risultato, un granito facilmente disgregabile, di cui è costituita anche la sabbia delle nostre splendide spiagge, che per questo motivo non resta attaccata e non sporca.

Lungo il precorso naturalistico che conduce alla grotta del santo, colpisce la varietà della macchia: il lentisco, u stincu in dialetto locale, rimedio consigliato contro il mal di denti,   impiegato dai Romani per aggiustare il sapore del vino e, in tempi più vicini a noi, come frasca da forno per il particolare aroma resinoso conferito al pane; il sisicus spinosus, a spalesara, tristemente noto per la corona di spine di Cristo, che dà il nome alla città croata di Spalato, i cui colli in primavera si accendono del giallo brillante delle sue infiorescenze. La sosta in un punto panoramico ci regala una vista mozzafiato sull’intera vallata: la costa dei Gelsomini, la rocca di Gerace e, a  sud/ovest, l’omonima fiumara,  un tempo fiordo, in cui il mare si insinuava fino alla base delle colline scolpendo un paesaggio che oggi può sorprendere, ma che è tuttora visibile lungo le dirimpettaie coste croate.

Suggestiva, infine, la meta raggiunta, poco sotto la grotta del santo, circondata da un silenzio carico di mistero, dove a parlare è solo la natura, che sintetizza un po’ tutta la storia geologica calabrese, con la varietà delle rocce presenti: dal granito, all’arenaria, fino a un’isola di calcare risalente al giurassico sul non lontano monte Mutolo. Poco distante si innalza, vero monumento vegetale, una quercia da sughero di 500 anni, unica superstite di un’antica sughereta distrutta dagli incendi e ripiantata negli anni ’60. Assieme, purtroppo, a piante estranee al bioma locale: l’eucalipto, che assorbendo l’umidità ha inaridito il clima, e il Pinus strobus, responsabile di aver diffuso la processionaria, bruco spinoso portatore di pericolose infezioni.

A regalare un’inattesa quanto gradita cornice musicale alla presentazione è stata la banda di Pino Rubino, con l’esecuzione in apertura di una canzone dialettale ispirata al poeta locale Salvatore Filocamo, e che, con l’accompagnamento di chitarra, fisarmonica e lira, ritrae con amara ironia le piaghe dell’ingiustizia sociale e dell’egoismo imperante: Come na vota nenti cchiù ‘ndi liga; u riccu mangia e u povero fatiga.

A introdurre il libro è Marisa Larosa, richiamando l’attenzione sull’esigenza, suggerita dal titolo stesso, di inserire tra i compatroni di Gerace, accanto ai canonici Sant’Antonio del Castello e Santa Veneranda, San Jeiunio, rappresentante di un’epoca di splendore, figura affascinante e misteriosa, di cui poco si sa: il nome di battesimo, (Giovanni), le origini geracesi, il periodo in cui visse (intorno all’anno mille).

E’ G. Oliva, curatore della prefazione e direttore del museo diocesano di Gerace, a evidenziare i meriti del testo della Furfaro: quello di aver fatto parlare direttamente le poche, spesso discordanti fonti, accostandole tra loro e permettendo così al lettore di farsi una propria idea; l’aver saputo integrare le lacune con un “immaginario di fede”, attingendo alle vite dei santi locali coevi a disposizione; ma soprattutto l’aver richiamato alla memoria un passato illustre, ancora non abbastanza noto e di cui O. traccia il profilo. Ne emerge il ritratto di una Calabria insolita se confrontata con l’oggi, caratterizzata dalla radicata presenza di un monachesimo di matrice italo-greca, con ben 400 monasteri, centri di irradiazione di cultura in tutta Europa, attraverso i prestigiosi codici miniati in essi prodotti: testi non solo religiosi ma anche giuridici, medici, filosofici. Una Calabria bizantina, raffinata, aperta e cosmopolita, in cui già circolava, euro ante litteram, una moneta unica valida in tutto l’impero d’Oriente e con un tasso di alfabetizzazione tra i più alti di tutto il territorio.

Ma si parla anche, per contro, di una Calabria di oggi, “violentata culturalmente” e bisognosa più che mai di riappropriarsi di queste illustri radici, per ritrovare un orgoglio e un senso di appartenenza, con l’obiettivo non di ripiegarsi in uno sterile campanilismo, ma di aprirsi a un dialogo interculturale e interreligioso nel presente e per disegnare comuni scenari futuri.

E mi trova concorde, Oliva, quando si fa sostenitore di attività culturali che abbiano ricadute significative sulla collettività: di un’arte impegnata, sociale, educativa, capace di instillare negli animi il desiderio di azioni concrete. “Perchè alle marce contro la mafia credo poco”, aggiunge. Azioni concrete, dunque, ma unite a pensiero e conoscenza: “perchè laddove c’è ignoranza attecchisce la malavita; perchè solo da una conoscenza profonda può nascere nei cittadini l’amore per il proprio territorio e il desiderio di prendersene cura”.

Educare e risvegliare le coscienze; ed educare, soprattutto, con l‘esempio, come è accaduto qui, in contrada Ropolà, dove un gruppo di cittadini tenaci ha strappato all’incuria e agli incendi una spelonca adibita, fino al 1993, a rifugio per gli animali, rimettendola a nuovo e facendone il simbolo di un dialogo interreligioso, con la celebrazione, in loco, del rito cattolico una volta al mese e di quello ortodosso una volta all’anno, reincarnando così l’essenza primigenia della chiesa di Calabria e rinsaldando il suo antico legame con l’Oriente. E San Jeiunio, venerato da entrambe le confessioni, si fa emblema di questo inscindibile e ancestrale legame.

La presentazione si conclude sulle note di una canzone scritta per l’occasione da P. Rubino, San Jeiunio, in cui l’esperienza di romitaggio del santo è narrata in prima persona e in dialetto, con un recitativo inframmezzato da un suggestivo ritornello in grecanico: Megale Theu, Glykia Panaja, ef charistò, ef charistò, ego imme nisticò (Dio grande, Dolce madre tutta Santa, grazie, grazie…io sono a digiuno).

E così la musica si fa eco di un mondo invisibile, in un luogo unico, da cui promanano un senso di pace e di inafferrabile mistero, in cui il clamore del mondo tace per dar voce al silenzio: un silenzio che ci parla “nella brezza di un vento sottile”.

Livia Archinà