Per capire di cosa stiamo parlando vi riproponiamo un articolo del tempo del grande storico sidernese Nicola Zitara:

La soppressata 

Nella storia della Calabria, querce, ghiande, maiali, terre destinate all’uso promiscuo del signore e del contadino s’avvilupparono fino a fare una storia sola. Il maiale, o meglio il maialetto, il porcello, u niru, è il bene prezioso della famiglia. Quasi di tutte le famiglie. “Chi sposa festeggia un giorno, chi ammazza il maiale festeggia un anno”. Nell’Annuario italiano di statistica del 1858 – la prima indagine statistica condotta in Italia – il rapporto tra maiali e persone, al Sud, è doppio che al Nord; in Calabria più che altrove. Naturalmente, con il trascorrere del tempo e il rinnovarsi del modo di produrre, la densità dei suini, al Sud, è andata scemando, fino a farsi piccola cosa, in quanto il tipo di allevamento rimaneva familiare, mentre al Nord andava crescendo, in seguito all’affermarsi dell’allevamento industriale. Ma nell’ultimo decennio, o poco più, la produzione industriale di insaccati suini è fiorita sia in Sila che qui da noi, nella Valle del Torbido. Gioiosa, San Giovanni di Gerace, Siderno vanno affermando i prodotti tipici: soppressata, salsiccia e capicollo, ma anche il lardo, la pancetta, la ‘nduja. Il prodotto è commercializzato nelle stesse province, ma  cerca anche la strada del mercato nazionale ed europeo. Appunto a Rivoli, la Pro-loco di San Giovanni di Gerace ha promosso un grosso incontro con gli emigranti meridionali e gli autoctoni piemontesi. Il giornale del luogo, soffermandosi sull’evento, registra più di cinquemila persone e decine di quintali di salumi offerti come assaggio ai presenti. Con garbo e intelligenza l’animatore della cooperativa, Mario Carabetta, ha allargato il palcoscenico inserendo un altro tipo elementi della cultura calabrese, dalla gigantografia dei Bronzi alla musica folk, al vivace presentatore.

A questo punto il pubblicista si chiede: questo cominciare avrà un seguito?

La storia sociale d’Italia è fatta di poche verità e di molte bugie e reticenze, grandi e piccole. Una  è che l’Italia di 120 anni fa  –  un povero paese di emigranti che viveva di agricoltura e di artigianato – fece il suo ingresso sul mercato mondiale, come paese industriale, con le esportazioni di pasta, di conserve di pomodoro e di ortaggi sott’olio. Le prime centrali dell’esportazioni manifatturiere italiane non furono né Torino né Brescia né Treviso, ma Castellamare di Stabia, Nocera, Napoli, Palermo. Erano i prodotti richiesti dagli emigranti in America e che ci venivano pagati in buona moneta. Fiutato l’affare, il capitale bancario padano s’avventò sulla preda, peraltro presentando la cosa come un favore che il Settentrione magnanimo faceva al povero e incolto Sud. Nacque, così, la Cirio: banche padane e profumo di Napoli. Nacquero anche delle aziende locali, alcune  famose. Passarono i decenni, pareva che il conservificio e il pastificio fossero napoletani per volontà della natura. Quando, però, nel dopoguerra la popolazione di Genova, Torino, Milano prese a crescere e la base industriale a svilupparsi, l’Emilia rossa volle il privilegio d’essere lei a rifornire il Triangolo industriale di prodotti agricoli. Allora, la banca padana disfece in pochi anni quel che aveva fatto sessanta anni prima.

Il passato è maestro del presente. Vogliono in Calabria l’allevamento suino? Se lo vogliono, le precondizioni sono quattro:

  • l’allevamento locale al posto delle importazioni di carne;
  • i boschi di ghiande;
  • il controllo del credito bancario;
  • la protezione dell’allevamento e dell’industria relativa.

A titolo d’informazione, ricordo che l’industria del Nord-Ovest, da Genova a Padova,  è costata agli italiani  – in via diretta, come iniezioni di danaro,  e indirettamente, sotto forma di protezionismo doganale – una cifra spaventosa, pari a un terzo circa del prodotto nazionale per più di cento anni. Diciamo 50 milioni di miliardi di vecchie lire, venticinque volte il PIL italiano del 2000. Senza la protezione statale non si fa industria. Chi lo nega, racconta falsità.

Nicola Zitara

FOTO esclusiva ecodellalocride.it