Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
Quando nasce un fabbricato l’orologio della sua vita inizia a camminare, entra nell’immaginario collettivo ed è sottoposto al giudizio della storia e dei singoli nel bene e nel male. Ma certamente la variabile tempo sul costruito acquista sempre un inedito valore solo se si modifica l’ottica che spesso banalmente invita alla trasformazione, introducendo il senso del luogo che la memoria genera.
Gli spazi urbani ed extraurbani costituiscono una rete di percorsi e crocevia dove si intersecano storia, biografie, avvenimenti, memorie di quanti hanno percorso, percorrono e vivono quotidianamente quei luoghi facendone la sede delle proprie esperienze. Un dialogo costante con i significati e i valori del territorio.
L’ex pastificio Cataldo sul Lungomare di Siderno non sfugge a questa legge: non c’è luogo senza nome dice la Prof. Carla Maria Rita (Università La Sapienza di Roma) in – Toponomastica e luoghi dell’identità; i luoghi hanno un’anima, dice James Hillman nel suo libro – L’anima dei luoghi. Il nostro compito è di scoprirla, così come accade per una persona.
Anzi, contro ogni apparenza, i luoghi abbandonati non muoiono mai. Vivono di una loro corposa e materiale consistenza. Si alimentano di uno spessore riflesso. Pretendono non lo status quo, ma al contrario il movimento, il percorso fisico e mentale di una loro riconquista. E’ la poetica dell’abbandono che genera inevitabilmente il senso della riappropriazione come potente senso della memoria di ogni luogo.
Così una costruzione abbandonata come questa a Siderno, non scompare fino a quando qualcuno ne ricorda il nome. Si solidifica nella dimensione della memoria di coloro che la legano alla propria vita, ad un ricordo, un aneddoto, un’immagine lontana o che oggi vivono il Lungomare, pur con disagio, immedesimandosi per senso di appartenenza al luogo fino a costituire un irriducibile elemento di identità.
Vige, a proposito di questa costruzione un uno strano sentimento, superficiale e compassionevole. Si pensa non abbia più senso, se mai ne ha avuto uno. E invece no, c’è un senso. Un senso legato alla memoria dei nostri padri e alla stessa passeggiata del Lungomare che và percorso con passo lento e misurato della riappropriazione in ogni sua sfumatura: passaggi a livello, case, giardini, sabbie, strada, incompiute, vanno sempre tenuti a doppio filo quando si introduce una singola “perturbazione” di modifica.
La trasformazione di un luogo così strutturante della città non può essere banalmente strumentale alla formazione di un nuovo campo da tennis che, peraltro, richiede adeguamenti nelle urbanizzazioni che il lungomare non è in grado di garantirgli. Mi sarei aspettato quantomeno il tentativo di un’analisi storico critica che portasse in se alternative, i riverberi urbanistici della nuova iniziativa, i pro e i contro del nuovo vedere il risanamento ambientale, fino al senso antropologico della modifica. Così tutto sembra semplicistico se non un salto nel buio.
Mi si dirà che l’edificio versa in un uno stato ruderale. E’ vero, ma esistono tecniche di ingegneria e di architettura, oltre che efficaci modalità di recupero, che realizzano manufatti migliori dei nuovi. Mi si dirà che i costi sarebbero eccessivi, ma forse i vantaggi nel complesso ripagherebbero. Alla fine il vero problema è che nell’immagine dell’ex-pastificio Cataldo si scorge una città ben più vasta, che chiede maggiore attenzione, che vuole evitare l’inesorabile declino per l’assenza di programmazione, di idee, di vision, ecc.
Il pastificio è nato prima del lungomare ed ha diritto di restare prima di ogni altra cosa. E’ il suo intorno che ha bisogno di conformarsi ad esso. Non ho mai sentito giudizi positivi a proposito della demolizione del Cinema Apollo, del Palazzo Cataldo, dell’Acquedotto della Pellegrina e dei tanti Palazzi del primo novecento andati persi, ricchi di finiture e di storia patrizia.
Vito Teti, nel suo ultimo libro “Quel che resta” ed. Donzelli 2017, sostiene che “bisogna avere una direzione, una meta, una nuova comunità da costruire e da inventare”. Non ho la facile presunzione di dire che ha ragione perché in agguato, certo, c’è il rischio della retorica e della nostalgia restaurativa. Ma la nostalgia positiva può essere sostegno a innovazione, inclusione e mutamento. Se la nostalgia diventa una strategia di analisi per conoscere e reinventare la città, allora quel che resta è ancora moltissimo. Siderno conserva ancora molte preesistenze di storia patria per le quali un tentativo d’interpretazione dei luoghi da quel che resta, prendendosene cura, è un dovere della comunità, vecchia o nuova che sia, verso chi questo patrimonio ci ha lasciato.
Nando Errigo – Luglio 2018
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