di Guido Mignolli, Direttore Gal Terre Locridee
Non sono solo canzonette. In più, penetrano laddove altre forme di espressione non osano. Potrebbero essere la via per ripristinare la conoscenza nei più giovani, alla deriva del sapere, per far ricomparire strade che portano lontano, scomparse dalla memoria collettiva.
La storia del ferro in Calabria, che ha lasciato tracce materiali evidenti e spettacolari nei territori dell’Alta Locride e delle Serre, tra Stilo, Bivongi, Pazzano, Chiaravalle e Mongiana, è una storia dal fascino unico, tanto quanto poco nota, cancellata dalle vicende e dalle volontà, ora addirittura negata.
La canzone a tema di Eugenio Bennato, diffusa già da qualche mese, ha avuto il pregio di contribuire alla ribalta di questi fatti, e quindi a risollevarli dall’oblio, ma anche di avviare un dibattito stimolante che ruota intorno alla loro reale consistenza, alle “libere” interpretazioni, alle “verità”.
Si può negare che ci sia una storia?
È storia. È storia di almeno cinque secoli in un’area della Calabria, bellissima, con radici che si perdono nella notte dei tempi.
Certo è pure che in un’era in cui la mistificazione telematica è in grado di produrre false verità, in molti scatta la molla della diffidenza verso opinioni “categoriche” sulle vicende storiche che, quasi con automatismi da intelligenza artificiale, puntualmente si traduce nella voglia sfrenata di contrastare e ironizzare sullo scarso studio su cui fonda la tesi. E così, la voglia di poter finalmente smascherare falsi “profondi” fa perdere la lucidità, e assumendo comportamento analogo, si contrappongono verità superficiali.
Sono questi i momenti, capiterà a tutti voi, nei quali puntualmente ritorna il pentimento. Quello di non aver studiato per come si doveva. Adesso si che avresti potuto dire la tua senza timore di smentita!
Adesso cosa puoi mettere sul piatto per bilanciare? Solo le letture che tutti conoscono.
Tutti?! Sicuro che sia così?
Suppongo… Ma che importa? Ci sarebbe pure un po’ di letteratura, neanche recente, americana, di storia economica che riporta questa nostra piccola vicenda come un esempio. Un esempio di protezionismo, certo, ma anche di elevate capacità tecnologiche, di socialità, di bellezza. Di un territorio che ne è tutto impregnato, in cui la fabbrica merita il suo posto accanto agli alberi, in un contesto naturale potente. Un caso unico al mondo, dicono gli americani! Ovviamente senza le illusioni di una realtà da favola. Avrei dovuto registrare quella lezione magistrale, quando studiavo lì! Invece di perdermi nei piaceri di orgoglio per essere uno che veniva dalle terre di cui si parlava…
È tutto quello che puoi mettere sul piatto del confronto? Non ti impelagare in cose difficili, perché tra professori, giornalisti, studiosi e altro saresti perdente.
Hai ragione! Come diceva la mia vecchia cara prof, Emilia Zinzi, grande storica del territorio calabrese: “Voi architetti siete falsamente onniscenti”. Però, con lei li ho visti i meravigliosi volumi di tecnologia industriale del tempo, provenienti dalla biblioteca della Fabbrica d’Armi di Mongiana! L’Archivio di Stato di Catanzaro ne conserva alcuni, pochi rispetto a quello che le fonti storiche tramandano.
Con lei ho riesumato carte che testimoniavano, intorno alla vita della fabbrica, conquiste sociali, ma anche disgrazie e proteste vibranti sulle condizioni dei lavoratori.
Con lei ho vissuto quell’esperienza dell’incontro con la vecchia ormai sola, discendente di un addetto delle fabbriche, il marito andato via da tempo, i figli emigrati, che abitava ancora in una delle case del villaggio operaio. Facemmo un raffronto, allora, fra le tipologie architettoniche degli alloggi a Mongiana e quelle di altre realtà europee. Lo sai che erano decisamente superiori, in genere, per ampiezza e qualità dei materiali, oltre che per attenzione all’articolazione degli spazi e al decoro urbano? Però non erano per tutte le categorie dei lavoratori della fabbrica…
Ma quello che mi è rimasto impresso è il racconto della vecchina. I suoi avi erano arrivati dalla Francia per lavorare nelle fabbriche, inseguendo un sogno. Che a mano a mano svaniva. Come la sua famiglia. Ora, sola, non riusciva più a salire le scale in legno per andare al piano superiore. Viveva nella grande stanza al piano terra, e in un angolo aveva sistemato il letto. Ci invitò ad andare su. Non ressi all’emozione di ambienti in cui il tempo si era fermato. Il suo abito da sposa, che si intravedeva nel guardaroba semiaperto, fu il culmine e ridiscesi più velocemente che potei.
Mi aveva rattristato il suo racconto. Ma a distanza di tempo, mi torna alla mente il sorriso e la serenità, con i modi di fare aperti e accoglienti. “Diversi”, oserei dire “europei”, di una donna felice per quello che la sua vita era stata e le aveva donato. Per la consapevolezza, mi piace immaginare, di aver fatto parte in qualche modo di un percorso importante.
Non si capisce da che parte stai. E poi scantoni in cose che poco c’entrano con il tuo mestiere…
Va bene! Ho toccato le pietre! Questo ti interessava io dicessi? Ho trascorso giornate in quegli spazi ormai stravolti. Però, devo confessarti che mentre si lavorava al recupero dell’organismo, bastava quel poco che riemergeva dalla terra, per squarciare i veli. Se chiudevi gli occhi e lasciavi andare il tuo spirito, facilmente ti ritrovavi avvolto nei fumi e nei rumori della fabbrica attiva, fra centinaia (?), migliaia (?) di operai al lavoro.
Centinaia o migliaia?
Gli spazi e i vani riemersi dell’impianto possono risponderti… E tanti ancora sono celati dalla terra.
Interessante il forno che è stato ritrovato. È descritto come una cosa eccezionale. Attira gli interessi di esperti da molte parti d’Europa.
Sono stati rimontati i pezzi, uno a uno, come in un puzzle tridimensionale. Nessuno ci credeva che potessero essere laggiù. Neanche i primi progettisti del recupero, che in quel punto avevano previsto di realizzare un bello spazio verde. “Buttati” lì, come roba inutile. Con i segni tragici degli strumenti di demolizione. Simbolo della “ferocia”, di cui alcuni studiosi parlano, con la quale la fabbrica fu chiusa.
Sul valore tecnico rapportato ai tempi, non mi esprimo. È coerente con certe tesi… Però, appunto, chissà cosa ancora è celato.
Comprendo come non sia facile crederci. Ma, certamente è una storia…
Da approfondire di più, per quel che si può. La sensazione è che si discute della punta dell’iceberg… Fa venire voglia di superare i propri pentimenti. Io partirei da Campanella, mi immergerei nei luoghi, che veramente sono impregnati. Dal fondo dei corsi d’acqua incuneati fra le montagne ad altre aree riconquistate dalla natura, che occulta i segni, ma non li cancella. Mi lascerei trasportare dal flusso che ne deriva, per comprendere la gente. Quella gente… Che veniva da lontano, che era figlia di questa terra. E, poi, archivi e pietre ancora sono lì… Per aiutarci a raggiungere le “verità profonde”.