La vallata dello Stilaro per le sue caratteristiche geo-morfologiche e per la presenza nel suo territorio di molte mineralizzazioni, ha da sempre attirato genti e popolazioni che l’anno antropizzata.

Ritrovamenti archeologici ci fanno sapere che fin dall’età del ferro in alcune sue aree si stanziarono popolazioni che presero a sfruttare le risorse minerarie dello Stilaro.

La stessa città magno-greca di Kaulon, deve la propria fondazione alle ricchezze boschive e minerarie dei monti delle Serre Calabre.

Un elemento che caratterizzò fin dall’antichità la vallata dello Stilaro, fu la costruzione di numerosi mulini idraulici di tipo greco, lungo il corso medio alto della fiumara Stilaro e dei suoi affluenti, molti dei quali sono sopravvissuti fino ai nostri giorni.

I mulini, ebbero sempre grande importanza in quanto, essendo i primi opifici impiantati dall’uomo per affrancarsi da un lavoro manuale faticoso, quello di ridurre in farina i semi di cereali mediante una lunga triturazione tra due pietre piatte granitiche, furono sempre considerati indispensabili, sia perché permettevano il risparmio di energie e forze umane, sia perché favorivano il variare dell’alimentazione.

Per quanto riguarda la nostra zona, il brebion attesta il possesso, da parte del monastero di S. Maria di Arsafia,  di ben dieci mulini ad acqua, tutti collocati lungo lo Stilaro, a poca distanza l’uno dall’altro, ed affidati in locazione.

Di uno di essi sappiamo che si trovava in contrada Pannara, zona situata ad 1 km. a sud-est di Stilo,e che era affittato ai figli di Giovanni Kellos e di Leone , figlio a sua volta di Mylonas.

Sempre nella medesima contrada si trovava anche uno dei due mulini (i resti sono ancora in situ) del monastero di S. Leonte, come testimonia la controversia scoppiata nel 1059 tra l’igumeno Kosmas e i figli del protospatario Senatore per il possesso del suddetto bene.

In totale i centri molitori dello Stilaro  dovevano ammontare a circa dieci unità, un numero senza dubbio rilevante, se si considera la scarsa popolazione del tempo e i rispettivi bisogni alimentari.

Con la venuta dei Normanni i mulini mantennero ancora la loro importanza economica, tanto è vero che spesso furono oggetto di donazioni da parte di chi deteneva il potere.

Così, ad esempio, il conte Ruggero, il 15 agosto 1094 donava a S. Bruno,  oltre al monastero di S. Maria di Arsafia  con le sue pertinenze, anche il libero uso «aquarum de cursibus, molendinis, nemoribus et arboribus, cultis et incultis, mineriis aeris et ferri et omnium metallorum», mentre, un mese più tardi, gli concedeva un mulino presso Arsafia.

Ancora nel 1096 lo stesso conte permetteva al beato Lanuino, compagno di S. Bruno, di costruire un mulino «in terra de Arsafia, quae tibi assignata est, ad Severatum».

Ed infine, nel marzo 1224 Federico II confermava nuovamente ai certosini il diritto di poter utilizzare a loro piacimento la «declinationem et ductum aque et situm molendinorum et fullonum […], mineram ferri et salem».

L’economia dell’intera vallata, oltre ad essere imperniata sull’agricoltura e sulla pastorizia, era anche particolarmente legata alla coltura del baco da seta, introdotta dai Bizantini verso la fine del sec. IX, dopo averla conosciuta durante gli scambi commerciali con la Siria.

Il brebion, infatti, testimonia la presenza di numerosi gelsi in questa zona della Calabria, indispensabili per nutrire il baco da seta: così nell’idiarion dell’officiante di S. Pietro dei Salti, risultano censiti 36 gelsi in piena produzione, mentre fra i beni del monastero di S. Maria di Arsafia troviamo 1000 gelsi appena piantati, insieme ad un numero non specificato di piante già cresciute. Pure il monastero di S. Leonte possedeva le sue piante di gelso, sebbene non risultino quantificate.

Ancora in questo documento troviamo una lunga lista di persone che pagavano il canone al monastero di S. Maria di Arsafia per poter raccogliere le foglie di gelso nella zona denominata Bobonges, la futura Bivongi, e foraggiare così le larve, dalle quali si sarebbe poi ottenuta la seta. Risulta, poi, il versamento di un tributo, sempre al medesimo monastero, anche per la raccolta di foglie di gelso nei dintorni di Roseto, situato a circa 3 km. a nord-ovest di Monasterace Superiore, e di Stilo.

Di particolare interesse è infine Chama, una località, oggi non più identificabile, inserita tra i beni costituenti l’idiarion dell’officiante di S. Pietro dei Salti, in quanto riforniva di seta alcune terre sottoposte al monastero di S. Giulia di Brescia. Attraverso le ricerche toponomastiche, non si è potuto identificare alcuna località di nome Chama nella regione di Brescia o altrove nell’Italia settentrionale, ma il già più volte citato inventario di Reggio menziona in Calabria quel toponimo per una zona di produzione della seta: bisogna ammettere allora che quel certo monastero del Mezzogiorno d’Italia riforniva in tal modo il mercato di Pavia.

     Lo sfruttamento minerario: alcuni toponimi significativi

Le ricchezze minerarie della vallata dello Stilaro attirarono fin dall’antichità numerose popolazioni, che, in breve tempo, riuscirono a sfruttare abilmente i giacimenti presenti e a creare un’avanzata tecnica siderurgica, la quale arrivò a concorrere, sia per procedimento tecnologico che per produttività, con quella sviluppatasi nel resto della penisola italica. Al momento i più antichi oggetti in metallo ritrovati nella zona sono quelli affiorati negli anni 1912-1913 e 1915 durante la campagna archeologica di Paolo Orsi nel sito dell’antica Kaulon, città magno-greca ubicata non lontano dall’odierna Monasterace Marina. Fra i vari reperti, per lo più scorie di fusione e oggetti di ferro risalenti all’età arcaica ed ellenistica, se ne ricordano alcuni di bronzo di età preellenica, attribuibili all’inizio del sec. IX a.C.: una punta di lancia; un fodero spezzato di spada, rivestito di lamine; tre lance ed un falcetto.

Se fino a pochi decenni fa si pensava che la riattivazione di queste miniere, dopo lo sfruttamento dell’età classica, fosse dovuta alla conquista normanna, oggi si sta sempre più delineando la convinzione che le attività metallurgiche dell’intera vallata siano riprese agli inizi del Medioevo e che forse non si siano mai interrotte, neppure in seguito alla caduta dell’impero romano d’Occidente.

È noto, infatti, che la più antica menzione di età medievale, riguardante l’attività estrattiva in Calabria, risalga al sec. VI, e sia contenuta in una lettera del 527 d.C., scritta dal re Atalarico al suo segretario Bergantino. In essa, oltre ad essere descritto il disagevole lavoro dei minatori, “Intrant homines caligines profundas, vivunt sine superis, exulant a sole et, dum sub terris compendia quaerunt, nonnunquam lucis gaudia dereliquunt”,  si ordina allo stesso Bergantino di recarsi “ad massam iuris nostri Rusticianam in Bruttiorum provincia” ad effettuare ricerche minerarie. Poiché le uniche miniere di ferro di una certa consistenza in tutto il Mezzogiorno sono quelle della vallata dello Stilaro, è molto probabile che Atalarico si riferisca proprio a questi giacimenti quando parla della proprietà Rusticiana.

I minerali, in modo particolare il ferro, il rame e l’argento, venivano estratti nell’entroterra, a ridosso dei primi contrafforti delle Serre formati dal monte Consolino e dal Cucumella. E’ proprio l’intenso sfruttamento delle risorse minerarie che ha segnato profondamente il territorio, lasciando tracce significative in molti toponimi.

Così, differentemente da quanto suggeriscono alcuni ricercatori, Bivongi starebbe ad indicare il luogo dove si temperava il ferro (gr. “Baf” “tempra del ferro” + “terra, luogo”) e Argastili, una contrada posta lungo il torrente Melodare, ricorderebbe la presenza di un’officina siderurgica (gr. ergasterion), mentre Argalia, rimanderebbe ad un laboratorio dove si batteva il ferro con il maglio (gr. med.ergaleion). Ed ancora, a Bivongi, il rione Migliolo sarebbe da ricollegare all’attività di un piccolo maglio (lat. malleolus) e Grappino, invece, a quella di una tenaglia per sollevare pesi ( lat. med. grappelum).

Non sono poi da trascurare, lungo l’alto ed il medio corso dello Stilaro, sia Vallone Folca che l’area denominata Falco, i cui toponimi rinviano a miniere di rame, come pure Angra do furnu (lat. med. angra “terreno coltivato vicino ad un fiume” + furnus “officina del fabbro”) e Argentera (lat. argentum “argento”): quest’ultima, assieme ad un’area posta lungo il corso dell’Assi, l’antico «fiume dell’argento» è da ricollegare all’attività estrattiva della colonia magno-greca di Kaulon.

Infine sono da menzionare Pazzano, la terra delle miniere (lat. med. plateanus “persona di bassa estrazione” e, per antonomasia, “schiavo, minatore”), nonché la località Forno ( lat. furnus “officina del fabbro”) e lo stesso Camini (gr. kaminion “fornace”) che nel nome presentano un chiaro riferimento all’attività di fusione.

Tutto questo dimostra che, grazie alla politica di sfruttamento razionale attuata dai Bizantini e dai Normanni, le risorse presenti nella vallata dello Stilaro richiamarono forza-lavoro e ricchezza, le quali trasformarono, come scrisse il cartografo arabo Edrisi, il territorio dello Stilaro e l’intera Calabria in «un paese popoloso colmo di ogni ben di Dio».

Danilo FRANCO