BAMBINI IN CATENE

Per la ‘ndrangheta, che aveva regole, un bambino era intoccabile, come le donne e le persone anziane. Furono le cosche calabresi negli anni Settanta, le più attive, a inaugurare la terribile stagione dei sequestri di bambini. L’elenco dei bambini in catene, come Augusto De Megni, Francesco Cribari, Vincenzo Diano, Alfredo Battaglia, Giovanni Furci, Alfredo Antico ed altri, finiti nelle prigioni dell’anonima sequestri, subendo traumi psicologici devastanti mai cancellati, fu lungo. Tornati in libertà, raccontavano esperienze terribili. “Bastardi”, definì i suoi carcerieri il piccolo Rocco Lupini che da maggio a fine dicembre del 1984 (per sei mesi assieme alla madre) venne segregato in una capanna sull’Aspromonte. Il piccolo Marco Fiora, il giorno che venne liberato dalle catene e rivide la luce uscendo dall’inferno aspromontano, era impaurito e sperduto nelle mille difficoltà a tornare alla vita di relazione, a riambientarsi tra i banchi di scuola. Marco rimase un anno e mezzo in mano ai suoi aguzzini, il sequestro più lungo per un bambino, tenendo il Paese col fiato sospeso, come accadde per la carcerazione di Patrizia Tacchella, rapita dalla banda dei torinesi e liberata dai Carabinieri senza che la famiglia versasse i soldi per il riscatto. Periodi drammatici vissuti da centinaia di famiglie direttamente colpite, dal Nord al Sud della nazione.

L’Anonima non aveva cuore e non aveva pietà e lo dimostrava, non solo nei casi che riguardavano i bambini, ma con la sua tattica nei confronti delle famiglie, che invocavano un contatto rassicurante. Sparava la richiesta estorsiva e poi non si faceva sentire per mesi. In una ipotetica classifica del crimine più ripugnante, assieme allo stupro e alla violenza ai minori, ci fu sicuramente il sequestro di persona. Un delitto risultato remunerativo rispetto all’impegno di detenere in custodia una persona, per settimane, mesi, anni; di vivere sovrani in zone impervie dell’Aspromonte; di penetrare macchie inaccessibili; di riciclare il denaro ricavato dal sequestro; tutto questo e altro richiedeva complicità ramificate, non certamente improvvisabili, in azioni articolate e complesse, di cui solo l’organizzazione criminale come la ‘ndrangheta poteva avvalorare, sostenendo maggiori guadagni con minor fatica. Una volta che il sequestrato era in mano ai carcerieri era tutto più facile, diventava enormemente difficile per le Forze dell’ordine. Un crimine odioso, antico quanto l’uomo. “È un forte choc. È come trovarsi di fronte alla propria morte”, raccontava un ex prigioniero dell’Anonima. E un sequestratore, in vena di confidenze: “Il sequestro è nato con il furto delle pecore. Anzi, è più sicuro, perché l’uomo non bela”. Anche Giulio Cesare venne rapito e tenuto prigioniero dai pirati, a cui dovette pagare un lauto riscatto per la sua liberazione; ottenutala, diede una caccia irriducibile ai suoi sequestratori e non fu soddisfatto fino a quando non li vide crocefissi tutti. In Italia, il sequestro di persona divenne una specie di industria. Furono 910 i sequestri di persona tra cui, negli ultimi trent’anni, 82 morti; tra i più lunghi, quello di Carlo Celadon, durato 831 giorni; una sessantina furono le donne rapite (5 uccise); una trentina i bambini (3 uccisi), di cui il più lungo fu quello di Marco Fiora, 7 anni, rapito nel 1987, tenuto prigioniero per 17 mesi (520 giorni). Nel cuore dei territori in cui l’Anonima sequestri era padrona, lo Stato inviava i suoi uomini all’assalto sull’Aspromonte, prigione dei sequestrati, dove, dopo tanto cercare, fu scoperta, estirpata e bruciata una piccola piantagione di canapa indiana, nient’altro.

L’aggressione alla ‘ndrangheta serviva, quantomeno, a non concedere respiro ai custodi e ai contatti dell’Anonima. Controllando anfratti, ovili, stradine vecchie e nuove, movimenti di persone, c’era la speranza di un qualche sviluppo investigativo che potesse permettere di arrivare anche ad uno degli ostaggi. Superati i Piani polverosi di Zervò, la strada che partiva dal Sanatorio e conduceva allo Zillastro s’incrociava con la vecchia statale sempre affollata di campagnole di carabinieri e soldati, impegnati ad accamparsi con le tende negli spazi dell’ex sanatorio, adibito a ricovero di bovini allo stato brado. Era stato il crocevia di tanti sequestrati, da un parte il Tirreno, la Piana di Gioia Tauro, dall’altro la Jonica. “Fiamma 24”, elicottero dell’ottavo Nucleo, volteggiava e indicava possibili obiettivi per i reparti a terra, che cinturavano ed assediavano la zona. Battevano la montagna palmo a palmo, senza risultati tangibili, col tentativo di dimostrare che l’Aspromonte non era la montagna sacra, una esclusiva delle cosche. I 2.500 uomini antiguerriglia, spediti in Aspromonte dal ministro Gava, dopo la liberazione di Marco Fiora e il doppio sequestro Minervini, rientrarono alla base, non appena le telecamere furono puntate altrove. La strategia dell’Anonima non aveva canoni rigidi, specialmente quando le cosche si sentivano assediate. Nonostante la presenza di molti carabinieri e poliziotti, nella storia infinita dei sequestri di persona e degli scontri tra le cosche, in vicende di sangue, Leonardo Stilo, un bambino di 13 anni, rimase ferito nell’esplosione di un’auto. L’attentato, nella piazza di Africo, era rivolto contro il pregiudicato Carmelo Morabito, accusato e poi assolto per il sequestro della farmacista Carmela Infantino, una prigionia da cui scaturì la c.d. faida di Motticella, con tantissimi morti ammazzati. Carmelo Morabito viaggiava con la sorella Maria di 19 anni, su un’Alfetta blindata. Si salvarono perché una delle due cariche di esplosivo, radiocomandate, fece cilecca e la loro auto fu solo danneggiata. Salvatore, il padre dei due giovani e il fratello, Antonio, erano stati assassinati il giorno della Pasqua di anni prima.

Cosimo Sframeli