A Locri e dintorni tutto restava minuscolo, squallido e scalcinato. I vessilli del potere, una bandiera sbiadita con la scritta “MUNICIPIO” orfana di qualche lettera, si perdevano nel grigiore uniforme di quelle case nate già vecchie, aderenti alla costa come le scaglie di un serpentone che avvolge e mortifica nelle sue spire la bellezza di spiagge e scogliere. Sembrava che un rigido piano regolatore imponesse alla riviera jonica l’aspetto di un cantiere non finito, color cemento grezzo, con gli infissi sgangherati e un tocco di immondezza sedimentata negli angoli morti dei cornicioni.
Mentre il caso Calabria veniva riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica dalla disperazione di una mamma e dalle dimissioni in massa dei sindaci della Locride, ricevuti dal Presidente Cossiga, percorrendo la Statale 106, scorrevano davanti agli occhi un susseguirsi di agglomerati senza storia, cresciuti nei tanti decenni come filiazione di paesi rimasti per secoli arroccati sull’Aspromonte, lontani dalla minaccia saracena. Locri, ex Marina di Gerace, divenuto Comune autonomo nel 1905, come l’intera fascia costiera, ebbe l’effetto di una migrazione che, risucchiata prima dalla ferrovia e poi dal turismo, spostò rapidamente sulla costa il baricentro della vita sociale, creando nuovi insediamenti e stravolgendo una cultura tradizionalmente montana, coi lidi dai nomi americani e le trattorie che cucinavano l’agnello meglio del pesce. Tutto aveva l’aspetto del provvisorio, quasi che gli abitanti si aspettassero da un momento all’altro di dover rifare le valigie. Il panorama era di una civiltà povera, sradicata e abbandonata, che si rifletteva opaca sulle facciate dei palazzi del potere locale, da dove era partita una protesta che però non ebbe la forza di trasformarsi in rivolta.
Le Caserme dei carabinieri erano sforacchiate dai colpi sparati di notte da qualche buontempone, per sfregio o per intimidire. Nel Palazzo di giustizia di Locri c’erano tre magistrati sommersi da cataste di fascicoli come fosse il tempio delle scartoffie e del cerimoniale dove il tempo sembrava essersi fermato al passo tra il passato, commemorato da una lapide che ricordava il locrese Zaleuco, primo legislatore del mondo occidentale, e un futuro apparentemente altrettanto remoto, prospettato da un manifesto che annunciava un convegno sull’introduzione dell’informatica nei processi penali. Le Chiese, povere e scrostate come non se ne vedevano in nessun’altra parte d’Italia, erano sedi di una sacralità trascinata nel degrado generale, violata dagli uomini di stato e dai pallettoni della lupara che, all’ombra di Polsi, il primo giugno del 1989, uccisero don Peppino Giovinazzo, parroco di Moschetta (Frazione di Locri) ed economo del Santuario della Madonna della Montagna, osteggiato e screditato da qualche suo confratello. Un clero che era accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso, come accadde a don Giovanni Stilo, il sacerdote di Africo, assolto dopo una condanna a sei anni in primo e secondo grado. Africo Nuovo, sorto sulla costa di Bianco a seguito dell’alluvione del 1951, descritto in un famoso libro-inchiesta di Corrado Stajano, era un paese polveroso, con pochi negozi e pochissime insegne scritte a mano con pennellate di vernice, dove la povertà e la ‘ndrangheta erano i padroni. L’Istituto parificato, fondato e diretto da don Stilo, uomo energico e di grandi capacità, era il palazzo più bello del paese, una sorta di isola rispetto alle strade polverose ed ai ragazzini con la faccia da giovanotti che passavano il tempo seduti sul muretto a diffidare dei tragedianti, dei seminatori di zizzania. Il Municipio di Bovalino era sotto le insegne di un ex hotel. Un albergo costruito coi soldi della Cassa del Mezzogiorno, rivenduto alla Comunità Montana e parzialmente adibito a sede dell’Amministrazione comunale. Il sindaco democristiano, preso da tante difficoltà, era la tipica espressione di cui non si saprà mai se si avesse a che fare con una vittima o con un carnefice. Bovalino aveva la più alta percentuale di disoccupati della Calabria, entrato nel guinness dei primati per aver subito un sequestro di persona a scopo estorsivo ogni quattrocento abitanti. La Statale jonica 106 fu sorprendentemente bloccata dai sindaci quando si sollevarono contro la proposta di ridurre a cinquemila i ventiquattromila forestali locali, lasciati allo stato brado nella Montagna più impenetrabile d’Europa. A Bricà c’era una fabbrica specializzata nella lavorazione del legno, la materia prima più disponibile in zona. Il Ministero dell’Agricoltura e Regione Calabria, gestori dello stabilimento, spesero cinque miliardi di lire per rinnovare i macchinari, ma non fornirono più il legno ed i capannoni divennero un deserto silenzioso. I settanta dipendenti, ogni mattina, timbravano il cartellino e giocavano a carte o chiacchieravano fino all’ora di chiusura. Scioperarono, chiedendo di poter lavorare, ma non ci fu nulla da fare. Dalla Caserma dei carabinieri di San Luca, una sorta di Fort Apache, si usciva solo per ragioni di servizio.
Al bar, raccontavano, nessuno degli abitanti o dei militari aveva voglia di parlare neppure di sfuggita, per evitare ogni fraintendimento. Al Municipio era esposta una lapide con una frase di Corrado Alvaro, che a San Luca era nato, sempre attuale: “La disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile”. Eloquenti erano le statistiche sui delitti più gravi consumati in provincia di Reggio Calabria, le cronache dei giornali locali, uno stillicidio di notizie a una colonna: ferimenti, auto bruciate, negozi presi a fucilate, estorsioni, usura, il risultato di una violenza sociale diffusa e di una guerra tra cosche della ‘ndrangheta, espressione di una criminalità che si scannava per controllare territori. Le ultime immagini della statale 106, del corso principale di Locri, Siderno, Gioiosa, dell’ intera Jonica, si perdevano tra il grigiore uniforme delle case, nei particolari quasi invisibili, mimetizzati tra le crepe dei muri, impalpabili come il clima che si respirava. I fori dei pallettoni, che sulla lamiera avevano i bordi netti mentre sui mattoni lasciavano un alone screpolato, in evidente contrasto con la gentilezza della gente. I manifesti annunciavano l’alternativa per il tempo libero, un film porno al cinema o una conferenza dibattito sul fegato e apparato digerente. A Locri, col tempo, la mobilitazione anti ‘ndrangheta è ormai totale. Lyons e Rotary, radioamatori ed ex combattenti, boy-scout e crocerossine, giovani dell’Azione cattolica e del clero, massoni e politici, tutti, nessuno escluso, tranne gli ex prigionieri dell’Anonima sequestri che non sono riconosciuti “vittime” della ‘ndrangheta, inviano messaggi di solidarietà. Più difficile, sembra, sia convincere la gente a denunciare i fatti che la rende oppressa e secondo cui dovrebbero essere i carabinieri ad accorgersene in autonomia, come per caso, affinché le stesse vittime non fossero destinatari di altri guai. In terra di Calabria, si fa presto a parlare; i cronisti del nord, dopo qualche giorno, tornano a casa e a restare nella Locride ci sono i calabresi, i più testoni, quelli che non si piegano al potere ed allo strapotere, a continuare la quotidiana lotta contro i mulini a vento.
Lo scrittore Francesco Barillaro nel suo testo “Respiri d’Aspromonte”, in cui omaggia la terra natia e quanti l’hanno dovuta lasciare, egli stesso emigrante, afferma: “E’ questo un luogo particolare e suggestivo, sembra di essere sulla soglia dell’infinito. Qui giunti, infatti, ogni parola diventa vuota, ogni descrizione approssimativa. Si ha l’impressione di essere fuori dal mondo, pervasi da uno spaesamento totale in cui i sensi perdono il loro peso corporeo e l’anima s’innalza tra cielo e monti, finalmente libera di ogni passione, di ogni timore. (…) già pronto a farsi teatro serale per il cammino trionfale della luna”. Quindi, per piangere, secondo gli intellettuali, c’è ancora tempo.
di Cosimo Sframeli