Commento estetico al canto II dell’Inferno di Dante a cura del Professore Vincenzo Bruzzaniti
La paura di Dante –
Il secondo canto dell’Inferno inizia con un fosco crepuscolo cha fa presagire una buia notte. Nè è plausibile pensare che l’ingresso di Dante nell’oltretomba possa avvenire se non attraverso la mediazione dell’ombra , dell’oscurità. Il motivo è morale quanto artistico : non si entra nell’Inferno sotto un sole splendente , sarebbe una stonatura. La presenza di Virgilio qui risulta, da principio , in secondo piano, soffocata com’è dall’urgenza dall’ espressione “io sol uno” che sottolinea l’angoscia di Dante , in procinto di inoltrarsi in un ‘avventura di cui teme le difficoltà . Ma la nota drammatica che caratterizza l’attacco del canto s’inserisce , cedendo molto del suo dramma , nell’altra prospettiva retorica della dichiarazione dell’argomento della prima Cantica. E’ questa una tappa obbligata per ogni rispettabile poema che di classicità si nutra , cosi come lo è l’invocazione alla Muse . Nè pare uscire dall’alta retorica il lungo , accorato discorso che il poeta rivolge a Virgilio : si tratta di un riepilogo dei personaggi ( Enea , San Paolo) ai quali la grazia divina concesse di vedere l’aldilà . E’ un motivo che Dante utilizza per giustificare la sua missione – lui l’ultimo di una triade di eletti- ma anche per ribadire il concetto , caro al Medioevo cristiano , che l’impero di Roma ebbe origine e si sviluppo per preparare la sede del papa, vicario di Cristo sulla terra . La gran parte del canto va di fatto intesa come un lungo dibattito teologico-retorico preparatorio della poesia senza retorica che comincia a mostrarsi dal terzo canto , per trovare il primo esempio di grande arte realizzato nel canto quinto, quello di Paolo e Francesca . Tocca a Dante parafrasare quasi alla lettera il “Domine non sum dignus “( Signore io non sono degno)della liturgia cristiana prospettando dubbi e paure sulla sua inadeguatezza( anche morale) all’impresa. A Virgilio spetta rivelare quelle fonti paradisiache le hanno smosso la grazia divina : le tre donne benedette, La Madonna, Santa Lucia. e Beatrice. S’inserisce cosi ,nel canto attraversato dalla teologia , il motivo che un critico raffinato come il grande poeta argentino JORGE LUIS BORGES ha voluto interpretare come causa fondante di tutta la Divina Commedia . Il recupero del terribile , appassionato amore profuso per Beatrice , già cantato nella Vita Nova , che può essere ritrovato e conservato, dopo la morte dell’amata , solamente se ripreso in una prospettiva di alta sacralità . E’ la cifra distintiva del canto -complesso e a più facce- questo incrocio fra lo stile solenne e un pò impettito della retorica , le durezze concettuali e filosofiche- teologiche e la grazia malinconica del gusto stilnovistico , caro alle corti e agli animi cortesi nel loro saper parlare d’amore.
In quest’ultima componente occorre rintracciare la parte più bella del canto , come appare soprattutto nella celebre similitudine dei fioretti (vv 127-132), i fiori che , reclini e chiusi per il gelo della notte , si rianimano ai raggi del sole. Non è un caso, dunque, che il canto termina con la ripresa ulteriore del linguaggio stilnovistico , con parole come (pietosa, desiderio, cortese, cor) ; come se , assieme all’animo , il poeta avrebbe liberato la parola , irrigidita e fatta convenzionale dalla paura.
Professore Vincenzo Bruzzaniti