Una spietata “esecuzione sommaria” a Brancaleone, nella Provincia di Reggio Calabria, ancora più divorata dalla piovra mafiosa, agguati seguiti alle imboscate. La ‘ndrangheta, la sera di venerdì 7 febbraio 1986, con inaudita ferocia, colpiva a morte il Maresciallo Capo delle “Guardie di Custodia” Filippo Salsone di 44 anni, partito dal suo paese natio venticinque anni prima per servire lo Stato vestendo l’uniforme. Quella sera, Filippo Salsone, insieme alla moglie, Concettina Minniti, e ai due figli, alla guida della Fiat 126 azzurra, raggiungeva la casa dei suoceri a Bruzzano Zeffirio, che dista cinque chilometri da Brancaleone. Rientrati a casa, Filippo Salsone riusciva dopo qualche minuto per dare da mangiare al cane; percorse a piedi qualche metro dalla porta d’ingresso quando due o tre killer, armati e posizionati al secondo piano di una casa in costruzione poco distante, lo colpirono sparandogli contro colpi di fucile caricato a pallettoni, che lo centrarono in più parti del corpo. Contemporaneamente, udendo gli spari, il figlio Antonino, di 15 anni, raggiungeva il papà, già a terra e sanguinante, mentre Paolo, di 10 anni, frastornato dagli spari, riparava dentro casa dietro una finestra, ma veniva colpito alla testa da due pallettoni. Nell’esecuzione di chiaro stampo mafioso, per le ferite riportate, Filippo Salsone, decedeva sul colpo. Più di trenta i fori sulla fiancata sinistra dell’autovettura parcheggiata e sulla serranda di una finestra di casa, dietro la quale aveva tentato di proteggersi il piccolo Paolo che, trasportato all’Ospedale di Locri, fu trasferito d’urgenza nel Reparto di Rianimazione degli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria, dove lottò per sopravvivere, e poi nel Reparto di Neurochirurgia, laddove fu operato e curato dall’equipe del Prof Del Vivo.

Le indagini furono avviati dai Carabinieri delle Compagnie di Bianco (Capitano Claudio Vincelli) e Locri (Capitano Alfredo Salvi), coordinati dal P.M. della Procura della Repubblica di Locri dott. Ezio Arcadi. Nella sua carriera nel Corpo, Salsone aveva assunto diversi incarichi. Fu Comandante delle Guardie in diversi carceri: Lamezia Terme, Crotone, Cosenza e Reggio Calabria. Al momento dell’uccisone era comandante presso il carcere di Poggioreale, a Napoli. Il primo filone di indagini riguardò il carcere di Reggio Calabria, dove Salsone nel 1985 aveva ricoperto l’incarico di vicecomandante. Denunciò che all’interno dell’Istituto penitenziario non venivano rispettati i regolamenti, scontrandosi così con il direttore del carcere, dott. Barcella, e con gli altri suoi colleghi, Scorza (suo comandante) e Miciullo. Le articolate investigazioni, nonostante suffragate da gravi indizi di colpevolezza, non permisero di assicurare alla giustizia mandanti e autori dell’assassinio, ma rivelarono l’esistenza di una succursale della ‘ndrangheta all’interno del carcere di San Pietro. Direttore e guardie lo avevano trasformato in un istituto gestito dai mafiosi. I detenuti di tutto “rispetto” potevano incontrare le loro mogli, ricevere champagne e cibo prelibato, accogliere chiunque senza essere disturbati. Chi non si adeguava a questa regola veniva punito con le intimidazioni, attentati e quant’altro. Non per caso, al boss Paolo De Stefano, dentro il carcere, fu diagnosticato un tumore che ne conseguì l’uscita in libertà provvisoria. In seguito, morto ammazzato nel novembre del 1985, al momento dell’autopsia sul suo cadavere, il tumore però si dimostrò inesistente.

Fu indicativo un altro episodio che ebbe come protagonista il direttore Barcella quando scarcerò quattro pericolosi trafficanti internazionali di eroina per non aver loro notificato un ordine di cattura. Barcella parlò di errore materiale ma gli inquirenti ipotizzarono corruzione e connivenza con i mafiosi del carcere di Reggio Calabria. Era questo il quadro che emergeva e che permise l’arresto dell’ex direttore del carcere reggino e di otto fra marescialli, appuntati e agenti, su ordine delle Procure di Locri (P.M. Ezio Arcadi) e Reggio Calabria (P.M. Franco Scuderi), che ipotizzarono reati di associazione a delinquere, peculato, interesse privato, abuso in atti d’ufficio e altro. Alle indagini collaborò senza riserve il nuovo direttore del carcere, dott. Paolo Quattrone, conosciuto per essere un integerrimo funzionario dello Stato, oggetto di intimidazioni e attentati, che purtroppo a luglio del 2010 morirà suicida a causa di una ingiustizia giudiziaria subita.  Agli atti, una sentenza che ad oggi attesta come “il Maresciallo Salsone, fedele e integerrimo servitore dello Stato, fosse l’unico tra i sottufficiali a far rispettare il regolamento carcerario” (Sentenza Tribunale di Reggio Calabria – Dott.ssa Grasso Presidente).

Ma la scia di sangue conduceva dritta a Cosenza, da dove partì la “sentenza di morte”. Salsone era stato il braccio destro di Sergio Cosmai, direttore del carcere di Cosenza, ucciso per mano dalla cosca mafiosa di Franchino Perna perché imponeva il rispetto delle regole tra le mura carcerarie. E per questo motivo era sgradito ai criminali che lì dentro erano ristretti. Cosmai si era avvalso della squadra che il maresciallo Filippo Salsone guidava senza alcuna remora. A quel tempo, nonostante il gruppo Perna contro il gruppo Pino-Sena fossero protagonisti di una sanguinosa guerra di ’ndrangheta combattuta nella città di Cosenza, sull’uccisione del direttore del carcere non poterono che convenire considerandola come la scelta migliore. Mentre, per uccidere il maresciallo Filippo Salsone, uno scomodo servitore dello Stato, che si era speso accanto ad un altro coraggioso rappresentante delle Istituzioni, ci fu un patto siglato dalla ‘ndrangheta cosentina con quella della Locride. Cosmai e Salsone furono due uomini legati da un comune tragico destino. Cosmai venne assassinato a Cosenza il 12 marzo del 1985 lungo il viale, che oggi porta il suo nome, da quattro killer della cosca di Franco Perna. Invece, Salsone cadde vittima di un agguato mafioso, l’anno dopo, il 7 febbraio 1986, in contrada Razzà di Brancaleone.

Dopo l’eliminazione di Cosmai, decisa ed eseguita dalla cosca mafiosa dei Perna, toccò a quella dei Pino la decisone di ammazzare Filippo Salsone, il più fidato collaboratore di Cosmai, forse per sancire una sorta di pax mafiosa. Fu così che per uccidere Salsone venne chiesto appoggio e dato mandato ai boss della Locride affinché  eseguissero il delitto. I sicari di Cosmai confessarono il delitto e il mandante fu condannato all’ergastolo.  Per l’omicidio di Salsone, il boss pentito Franco Pino fornì notizie sull’agguato nel 1995. In tempi più recenti, anche un collaboratore della Piana di Gioia Tauro, Girolamo Bruzzese di Rizziconi, nonché un ex killer, Roberto Pagano, sarebbero a conoscenza di particolari di quel crimine.  Nel 2010, dopo lunghi e asfissianti anni, riconoscendo finalmente che il delitto fosse stato decretato dalla ‘ndrangheta, il Presidente della Repubblica – On. Giorgio Napolitano – insigniva il maresciallo capo Filippo Salsone  della Medaglia d’Oro al Valor Civile alla Memoria, con la seguente motivazione: “Consapevole del grave rischio personale si impegnò con coraggio e fermezza a ripristinare il rispetto delle regole e la disciplina all’interno di alcuni istituti penitenziari, ove erano detenuti elementi di spicco delle locali cosche criminali, rimanendo quindi vittima di un vile agguato.

Quella sera a Brancaleone, fu un dramma inimmaginabile. La ‘ndrangheta, in pochi minuti aveva cancellato la vita di un’intera famiglia. Insieme a tutti, provai sgomento e rassegnazione. Il dolore di Concettina, Antonino, Paolo, fu scolpito nella memoria di tutti coloro che vissero quel fatto di sangue, accompagnandomi nel tempo. Filippo Salsone fu, e lo è ancora, un esempio di eroismo, ucciso per mantenere fede al giuramento prestato alla nostra Bandiera.

Cosimo Sframeli