BOLOGNA – Un intervento lungo otto ore per avere un cuore nuovo e tornare a giocare. È la storia del piccolo Ethan, di appena due anni e mezzo, e della sua famiglia: per 8 mesi hanno trascorso le loro giornate in una stanza dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna. Se si potesse misurare la vita di una persona e stenderla lungo un piano, quella di Ethan la si potrebbe racchiudere in un metro e mezzo.
Tanto, infatti, misurava il tubicino che dal suo corpo andava al macchinario in grado di aiutare il ventricolo sinistro a pompare il sangue che gli consentiva di vivere. È il cuore artificiale, un organo meccanico alimentato a batterie che consente alle persone in attesa di trapianto di poter continuare a vivere. Uno strumento indispensabile che, grazie all’uso delle nuove tecnologie, va sempre più affinandosi. Tanto che sono usati in via sperimentale modelli in grado di sostituire interamente l’organo. Al Sant’Orsola ogni anno il 40% dei bambini sottoposti a interventi al cuore sono affetti da malattie che impediscono il normale sviluppo del muscolo cardiaco. Per loro, in attesa di un donatore, la vita è scandita dal rumore di un macchinario che somiglia molto a una piccola lavatrice, e che ogni giorno permette al loro cuore di battere.
«Nei casi di bambini piccoli è l’unica scelta visto che si trovano in una fase di crescita e non è pensabile impiantarne uno interno — spiega Gaetano Gargiulo, direttore di cardiochirurgia pediatrica dell’ospedale e che con la sua equipe ha eseguito l’intervento —. Nel caso di Ethan il suo ventricolo sinistro non funzionava e il sangue non veniva spinto nel resto del corpo. Così in attesa di trovare un donatore abbiamo impiantato un cuore artificiale esterno che sopperisse a quella funzione».
Per otto mesi i genitori di Ethan hanno trascorso giorno e notte accanto a loro figlio e ai tanti altri bambini del reparto di pediatria. «La mia compagna è rimasta accanto a lui tutto il tempo — racconta il padre Ivan —. Io mi dividevo tra il lavoro e l’ospedale. Ero arrivato a dormire nel camper parcheggiato davanti all’azienda così da poter iniziare presto al lavoro e uscire prima per poi arrivare a Bologna ». Una vita normale a Castelfranco Emilia che cambia ad agosto dello scorso anno quando dal ritorno delle vacanze in Croazia è cominciata la loro odissea. «È iniziato tutto con una semplice febbre che però con il passare dei giorni ha continuato a peggiorare — continua il padre —. Poi quando siamo arrivati a Bologna ci hanno detto che si trattava di un problema al cuore». Dall’ospedale Maggiore, dove Ethan era stato ricoverato, al Sant’Orsola dove ha subito il primo delicato intervento.
«Ormai c’eravamo abituati a questa condizione di vita e cercavamo di pensare il meno possibile che tutto potesse cambiare. Era un modo per non illuderci troppo. Così quando martedì scorso è arrivata la notizia del donatore è stata un’emozione indescrivibile — ricorda ancora commosso il padre —. È stato come uscire da un incubo anche se con la mia compagna abbiamo provato tanta sofferenza. Perché se oggi Ethan può tornare a fare una vita normale lo dobbiamo a qualcuno che ha deciso di compiere un bel gesto in un momento particolare come la morte del proprio figlio».
Il cuore che da qualche giorno batte nel petto di Ethan è di un bimbo marchigiano morto a causa di una caduta. «Questo mi ha fatto riflettere molto sull’importanza delle donazioni — conclude il padre —. Ci sono tante famiglie che oggi sono in attesa di un trapianto spero che anche a loro posso arrivare una buona notizia».
Dino Collazzo (dal Corriere della Sera)