Lo stagnino
Nessuno più dello stagnino ci riporta al mondo dei mestieri antichi, facendoci, a volte, quasi rimpiangere quel mondo carico di ideali e di buone maniere. Antico mestiere ormai scomparso, ci ricorda il passato e la fatica che i nostri padri o i nostri nonni giornalmente vivevano per portare a casa un tozzo di pane, frutto del loro sudore o del loro ingegno. Era il tempo in cui il grido: “E’ arrivato lo stagnino!” – “E’ arrivato lo stagnino!” risuonava inconfondibile e familiare per le contrade e per le vie dei nostri paesi. Subito le donne si precipitavano alla porta di casa e consegnavano nelle robuste mani dello “stagna pegnate” pentole, caldaie e altri utensili in rame. “’U stagninu”, infatti, era l’artigiano che riparava gli oggetti di rame, utilizzando quel materiale, lo stagno, che appartiene ai pochi metalli conosciuti dalla più remota antichità: Israeliti e Caldei lo chiamavano “anak”, gli Indiani “naja”, gli Etiopi “naak”. Metallo bianco argenteo e malleabile, lo stagno non è mai utilizzato puro, perché troppo tenero, ma quasi sempre in lega con altri metalli. Con il rame forma la lega nota come “bronzo”, in uso fino dal 3500 a.C. La sua più importante applicazione è quella della “stagnatura”, che è la tipica operazione per rivestire un metallo o una lamiera con lo stagno, in passato usato anche per ricoprire piombo, zinco e acciaio, al fine di impedirne la corrosione. Le pentole di rame, dopo l’uso, hanno il difetto, raffreddandosi, di ossidarsi, producendo una patina colorata chiamata “verderame” (“ossido di rame”), che deteriora gli alimenti in esse contenuti, rendendoli, addirittura, tossici. Per ovviare a questo inconveniente, interveniva lo
stagnino che “stagnava” la parte interna dei recipienti, rivestendola di stagno, che, in quanto neutro, non reagisce con gli acidi presenti negli alimenti, non altera i sapori e non rilascia sostanze nocive. Quello dello stagnino era un mestiere, generalmente, “itinerante”, in quanto non tutti i paesi avevano il “loro” stagnino, per cui egli girava per i paesi del suo territorio pronto a soddisfare i bisogni delle famiglie.

Abitualmente, dopo aver girato di porta in porta, offrendo i propri “servigi”, lo stagnino si
posizionava in un angolo poco lontano dal paese, possibilmente in un posto riparato ed arioso,
“sottovento”, per evitare di respirare i fumi del carbone che accendeva e i vapori dell’acido
muriatico che era costretto ad adoperare.
1 Questo strano personaggio, quasi sempre un tipo secco e alto, con i vestiti impregnati di un
acre odore di fumo, grande fumatore lui stesso, con la sigaretta costantemente in bocca,
attirava attorno a sé frotte di bambini curiosi di vederlo all’opera. Ma, oltre che per l’innata simpatia e per la ventata di novità che sapeva portare nei paesi, lo stagnino veniva atteso dalla gente con impazienza per la sua indubbia utilità sociale ed economica. Oggi viviamo in una società che fa dello spreco una sua pregnante caratteristica e dove vige la pratica del cosiddetto “usa e getta”, abituati, come siamo, a ricomprare tutto quello che ci occorre. A quei tempi, che certo non brillavano per lusso e comodità, si cercava, invece, di risparmiare al massimo, stando attenti a non sprecare assolutamente nulla. Gli oggetti di uso quotidiano non venivano gettati al primo accenno di malfunzionamento o di deterioramento, piuttosto erano riparati, anche più volte nel corso degli anni, perché nessuno poteva permettersi il lusso di disfarsi di una padella, solo perché il suo manico si era staccato. Era, perciò,
inevitabile la “pratica” del riciclare, riparando anche più volte lo stesso oggetto, come si faceva
per le scarpe, che venivano “aggiustate” continuamente, perché dovevano durare per anni.
L’attrezzatura di lavoro dello stagnino era costituita da pochi pezzi: una forgia; alcune
pinze, di varie dimensioni, che servivano per afferrare le ciotole contenenti lo stagno fuso
oppure per manipolare i pezzi arroventati sul fuoco; un paio di robuste cesoie, per ritagliare le
lamiere, alcuni punteruoli, per bucare i fogli di latta o le parti metalliche da unire attraverso
chiodi particolari, un martello, forbici robuste, tenaglie, un’incudine e, naturalmente, le
necessarie barrette di rame, che fondeva con l’acido muriatico, e il mantice, per dare aria e
ravvivare il fuoco.
Le operazioni per una corretta “stagnatura” erano parecchie. Lo stagnino, dopo aver
ripulito con cura la parte da saldare, usando una poltiglia composta da sabbia finissima,
segatura, cenere di legna mischiata ad acqua, scaldava sul fuoco la pentola da aggiustare,
versava all’interno il metallo fuso, facendolo scorrere con grande perizia sulle pareti del
recipiente e soffermandosi, in particolare, sui punti che dovevano essere riparati. Una sottile
pellicola argentata veniva così a saldarsi con il metallo sottostante, creando uno strato
impermeabile che consentiva il sicuro riutilizzo dell’oggetto.
All’imbrunire, lo stagnino ripassava di porta in porta, per consegnare il lavoro e per ricevere
il dovuto e onesto compenso. Poi, caricati gli attrezzi di lavoro sulla bicicletta o sul carretto, i
2 suoi tipici mezzi di trasporto, ripartiva silenzioso, accompagnato spesso da gruppi di monelli che
gli facevano il verso o lo deridevano per quel viso sporco e quelle mani nere di fumo e di
fuliggine che non aveva avuto il tempo, o la forza, di pulirsi.
Quando non era “itinerante”, lo stagnino operava nel “suo” laboratorio, dove non riparava
solo oggetti malridotti, ma ne realizzava anche di nuovi, dando vita a caffettiere, a imbuti, a
secchi, a vari contenitori a misura per latte, olio e vino, a “brocche”, a “teglie”, adatte per gli
arrosti e per i dolci, e, infine, al “braciere”.
Il lavoro dello stagnino aumentava enormemente in prossimità del fine anno, quando
urgevano i preparativi per “fare la festa” al maiale, a quei tempi di fondamentale utilità per
l’economia di ogni famiglia. Per lo stagnino era, questo, un periodo di gran lavoro e
dell’“entrata sicura”, quella che garantiva alla sua famiglia una certa serenità economica.
Lo stagnino, con le sue “creature”, partecipava alle feste patronali e ai mercati, dove le
sue argentate e ramate forme attiravano attorno al suo banco le massaie del paese. Dava,
infine, il suo ultimo contributo alla società, quando, in casi di decesso, veniva chiamato dai
familiari del defunto, per chiudere, saldandola, la cassa di zinco, spesso, da lui stesso
realizzata.
La sua scomparsa è dovuta a cause varie, ma, soprattutto, al progresso tecnologico, oltre
che a fattori economici. Infatti, a partire dal secondo dopoguerra il massiccio esodo verso la
marina ha determinato il graduale spopolamento della montagna e l’abbandono di intere
borgate, portando nel tempo alla scomparsa di tutti i mestieri “itineranti”, tra i quali,
certamente, ha brillato lo stagnino. A ciò si aggiunge l’ampia diffusione della plastica e
dell’acciaio, che hanno sostituito latta e alluminio, facendo venire meno il bisogno di questo
antico mestiere.
Oggi, però, non possiamo non ricordare quell’“omino itinerante”, nero, sporco, ma di
grande umanità che seppe ricoprire un ruolo di sostentamento economico molto importante per
le comunità locali. Nel nostro tempo “suoi” oggetti sono tenuti e conservati solo come arredo,
come ornamento e non si pensa alla grandissima utilità che, all’epoca, hanno avuto. Alcuni
plauderanno alla modernità e all’evoluzione della tecnologia, molti altri, più nostalgicamente,
ricorderanno con piacere quel passato, affascinati tutt’ora da quel mestiere fatto da gente
semplice, laboriosa ed onesta, che faceva del lavoro e del sacrificio il proprio orgoglio.
Oggi nessuno più ripara brocche, padelle e pentole, lo stagnino è in estinzione: hanno
vinto plastica, acciaio e … tecnologia!
Bruno Palamara – africo.net