La Calabria, punta meridionale della nostra Penisola, protesa verso la Sicilia e lambita da due mari, offre a chi la visita una natura varia, prepotente e selvaggia, un folklore originale e una cucina dalle note piccanti e robuste. Terra prevalentemente montuosa e collinare, con modeste piane ai piedi dei colli, la regione si affaccia sui mari Ionio e Tirreno con un variegato e imponente sviluppo costiero di oltre 700 chilometri.
Dal punto di vista storico, intorno all’VIII secolo a.C. il territorio fu colonizzato dai Greci, che sottomisero le popolazioni locali e fondarono le floride e colte città della Magna Grecia, inaugurando un lungo periodo di splendore. Successivamente, le rivalità interne tra le diverse colonie e i conflitti con l’antica popolazione italica dei Bruzi, che stanziata sui monti non permetteva ai coloni di penetrare nell’entroterra, portarono la regione verso una lenta ma inesorabile decadenza. Nonostante le strenue lotte dei Bruzi, alleati con Pirro, Annibale e Spartaco contro i Romani, dopo la seconda guerra punica la Calabria venne infine sconfitta e romanizzata. Le successive invasioni barbariche aggravarono la fase di declino economico già in atto negli ultimi secoli dell’Impero e, dopo il definitivo crollo di quest’ultimo, la dominazione bizantina si affermò su tutto il territorio, a eccezione di Cosenza caduta in mano longobarda. In quel periodo gli abitanti delle città costiere, a causa delle continue scorrerie saracene, furono costretti a rifugiarsi nell’entroterra.

 

Ai Bizantini seguirono i Normanni, che introdussero il sistema feudale, e gli Svevi, che inaugurarono una fase di sviluppo economico poi interrotto dalle dinastie angioine e aragonesi e dalle successive dominazioni spagnola e borbonica (secoli XVI-XVII). Il dominio feudale, concentrato nelle mani di poche grandi casate, con un rapace sistema fiscale immiserì ulteriormente il territorio, lasciando gli abitanti in una grave condizione di povertà e ignoranza che non sarebbe migliorata neppure con l’Unità d’Italia. Infatti le masse contadine, estranee alla soluzione unitaria e moderata rispondente agli interessi dei gruppi borghesi e dei grandi possidenti, reagirono al processo di unificazione con il brigantaggio. A fronte di queste vicende, a partire dalla fine dell’Ottocento fino ai primi anni del Novecento, la regione subì un forte flusso migratorio verso le Americhe e, nella metà del secolo scorso, verso l’Europa e le regioni settentrionali italiane.
Dal punto di vista gastronomico, la Calabria ha dato luogo a un ricettario composito, le cui preparazioni sono influenzate da un lato dalle numerose dominazioni subite e dall’altro dalle due anime del territorio, terrigna e marinara: nell’entroterra si trovano i piatti più sapidi e intensi della cultura contadino-pastorale, mentre sulla costa splende una solare cucina di pesce. Il ricettario regionale esprime una tradizione che, con piatti basati prevalentemente sulle verdure e sull’utilizzo di carni di maiale, agnello e capretto, riflette condizioni di povertà secolare: ne risulta una gastronomia saporita e immediata, in grado di conquistare sin dal primo impatto per i sapori intensi e accentuati dal largo impiego del peperoncino, che vivacizza con gusto e colore le più diverse ricette.

Tra le preparazioni più antiche non può mancare un cenno alla pitta che, oggi identificata con la pizza e servita abitualmente condita con pomodoro e senza formaggio, risale in realtà a epoche remote e antecedenti l’ingresso del pomodoro come ingrediente alimentare. C’è chi ipotizza che in origine fungesse addirittura da piatto e fosse una sorta di “stoviglia commestibile” sopra cui erano serviti cibi asciutti o sugosi – a fine pasto gli avanzi di pitta, insaporiti dalla preparazione che aveva ospitato, finivano nella zuppa arricchendone il sapore. È interessante notare che questo pane, originariamente forse collegato a finalità votive, è contraddistinto da una forma anomala e caratteristica del genere “da farcitura” che richiama quella delle piadine romagnole.
Passando ai primi piatti, l’imponente presenza nel ricettario di paste asciutte e minestre rispecchia pienamente le abitudini alimentari italiane. Le zuppe, che esprimono la cultura dell’entroterra e l’alimentazione contadina, sono ben rappresentate dalla licurdia, preparata con cipolle, patate e pane raffermo (e in qualche caso arricchita con l’aggiunta di carote e lattuga). Il piatto, cucinato con gli ingredienti più semplici a disposizione, risulta comunque compiuto e gradevole per l’equilibrato abbinamento cipolle-patate, non dissimile dal più famoso ed elegante potage Parmentier, a base di patate e porri. Proseguendo, la minestra di cipuddazzi è molto apprezzata dagli estimatori dei lampascioni (o cipollacci col fiocco), qui preparati – come si direbbe oggi – “in fonduta”: i lampascioni, cotti a lungo con aglio, olio e peperoncino, formano un composto cremoso e dotato di sapore intenso, con note amarognole e piccanti. Merita un cenno anche il millecosedde, una minestra a base di verdure miste e di un ampio assortimento di legumi secchi, come fave, lenticchie, ceci e fagioli. La portata rientra tra quelle preparazioni contadine, presenti in tutta Italia, che solitamente erano cucinate in primavera utilizzando tutti i legumi secchi rimasti nella dispensa onde evitare che si avariassero con l’avanzare dei mesi caldi; non ne esiste una ricetta codificata perché la qualità e la quantità dei legumi variava a seconda dei casi. Un’altra pietanza di antica tradizione, presente con nomi diversi in svariate regioni meridionali, è il macco di fave, per la preparazione del quale le fave, mescolate con il cucchiaio di legno, devono cuocere a lungo, fino a disfarsi in una crema omogenea ma non troppo densa, per potervi cuocere gli spaghetti o altri tipi di pasta.
A proposito di paste, in Calabria vengono confezionate con semola e acqua, in differenti forme; i più noti sono i maccheroni, un tempo preparati con un ferro simile a quello da maglia: in fase di lavorazione la pasta veniva arrotolata intorno al ferro, così che una volta sfilata presentava il caratteristico foro centrale. A prescindere dai diversi tipi di pasta, nella regione i sughi sono in genere costituiti da una base di cipolla, peperoncino e pomodoro, insaporiti in olio oppure strutto, cui vengono aggiunti formaggi. In tema di paste ripiene, vanno ricordate le sagne chine, ossia le lasagne piene, una tipica preparazione festiva destinata alle grandi occasioni. Si tratta di rettangoli di pasta fatti prima cuocere al dente, quindi disposti in teglia alternati a polpettine di carne fritte – cui si uniscono cipolla, funghi, piselli e carciofi cotti in tegame, bracioline di maiale disossate, uova sode, formaggi a pasta filata, pecorino – e infine gratinati al forno. Si tratta di un piatto molto ricco e sontuoso, in grado di assolvere la funzione di portata unica, accomunabile, per complessità e abbondanza di ingredienti, al sartù napoletano, ai timballi abruzzesi e alle lasagne bolognesi.
Per quanto riguarda le verdure, ingredienti base di molte preparazioni, va notato che sono quasi tutte di “importazione”, motivo per cui i piatti che ne prevedono l’impiego sono relativamente recenti. Le melanzane, per esempio, vegetale di origine asiatica, arrivarono in Europa molto tempo prima delle verdure provenienti dalle Americhe; introdotte in Sicilia dagli Arabi, si diffusero solo in un secondo tempo in Calabria. Come per molti prodotti importati da luoghi lontani, anche le melanzane non vennero subito accolte come alimento: basti pensare che il loro nome significa letteralmente “mela insana”, per la convinzione, sostenuta anche da parte di autorevoli medici del tempo, che fossero tossiche. Quanto al termine mela, nel Medioevo era usato come prefisso dei nomi dei prodotti “esotici” come melarancia – così erano chiamate le arance – o melagrana, denominazione che non si è modificata fino ai giorni nostri. Al contrario di alcune regioni del Nord – Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia e Valle d’Aosta – dove è quasi assente dai ricettari, oppure di altre realtà in cui il vegetale è utilizzato per preparare pietanze di verdure miste, in Calabria e in Sicilia la melanzana è l’ingrediente protagonista di numerosi piatti; nella regione, infatti, si preparano fritte, in umido, arrostite, sott’olio oppure ripiene.
Le ricette che risalgono a dominazioni straniere sono quasi esclusivamente frutto di contaminazioni spagnole, a cominciare dallo scapece (dallo spagnolo escabeche), diffuso in tutte le regioni che conobbero l’amministrazione iberica. In Calabria si preparano in scapece le melanzane, le sarde e, più raramente, il pesce spada. Sempre di derivazione spagnola è anche una zuppa, la minestra maritata, diretta discendente dell’olla podrida spagnola che in Italia ha ispirato molte versioni; è infatti diffusa anche in altre regioni, con differenze marcate. In Calabria è preparata utilizzando soprattutto guanciale e fave, cui si uniscono verdure lessate a parte e crostini di pane fritto.
Il murseddu è un umido di trippe, pomodoro e abbondante peperoncino, che viene solitamente gustato nella pitta, sbocconcellato come un sandwich; proprio dalla modalità di consumo, senza l’aiuto di posate, qualcuno vorrebbe farne derivare il nome. Appare però più fondata la discendenza da almuerzo, che significa pranzo in spagnolo. Per finire, è invece di origine araba il cumpittu, uno squisito torrone a pasta morbida.

FONTE: http://cucina.corriere.it/