Oggi, giovedì 28 febbraio, non è solo l’ultimo giorno del mese , ma, principalmente, giovedì grasso o Berlingaccio che, detto in dialetto, suona come ‘u jornu ‘i ll’Ordaloru. Infatti, era una ricorrenza molto sentita, una volta, quando la gente sapeva che erano gli ultimi sei giorni che si poteva mangiare carne, fino al martedì successivo ” ‘i ll’Arzata”, cioè dell’Altiata, giorno in cui – come dicevano i latini – bisognava “levare” la carne, cioè farne a meno per tutto il periodo quaresimale. Ma il Berlingaccio non è solo una festa cara alla tradizione calabrese, che si fondeva con i festeggiamenti di Carnevale, ma anche una festa tipicamente toscana di Firenze, durante la quale si celebravano i piaceri della tavola facendo un gran consumo di carne. In questa occasione si organizzavano pranzi abbondanti in cui non potevano mancare i “berlingozzi”, dolci tipici del carnevale, da cui prende il nome la giornata di Berlingaccio che, dal punto di vista letterario ( madre-lingua toscana insegna ), sta ad indicare una persona pingue, ben nutrita. Da noi, in Calabria, invece era la giornata dedicata al consumo di carne di maiale. I nostri antenati ne erano talmente ghiotti da non poterne fare a meno, essendo un animale domestico che allevavano con tanto amore e sofferenza , fedeli al detto che ” cu’ si marita è cuntentu ‘nu jornu, / cu’ mmazza ‘u porcu è cuntentu pa ‘n’annu”. Recita, infatti, un altro detto popolare che ” ‘i ll’Ordaloru, cu’ non àvi carmi mpigna ‘u figghjolu”, che, tradotto, dice: del Berlingaccio, chi non ha carne impegna il figlio , cioè dà il figlio a qualcuno in comodato d’uso ( facendolo lavorare ) per avere la possibilità di comprare la carne. A Benestare, infine, la giornata si arricchiva del sapore squisitamente carnascialesco, incominciando la rappresentazione delle farse per le strade e in Piazza Ariaporu, a ridosso della domenica di Carnevale,dal giovedì a martedì, richiamando il pubblico di un volta di estrazione contadina, che godeva di quella maschera sorniona e pittoresca di “Carnalavari” che – con la fame che c’era una volta – aspettava un anno per potersi permettere un intero ragù contenuto in un orinale ripieno di frittole, polpette e carne grassa e magra fino a fargli dire: << Ndavi ddu’ jorna chi sugnu addijunu / chi da la fami mia è gurdu cchjù d’unu / ca mi vorrènu mortu di la fami / tutti sti genti sciararati e mpami >>. Ma oggi il giovedì grasso è passato di moda, e Carnevale non è più quella maschera che, con le sue pantagrueliche abboffate, incendiava i sogni della povera gente che non aveva il becco di un quattrino per potersi sfamare, perchè solo pochi, allora, avevano i soldi per comprare un maiale da crescere. Ed anche oggi, come ieri,la storia si ripete. E quando la storia si ripete – disse qualcuno – la seconda volta è sempre una farsa!
fonte: Franco Blefari profilo fb